Capitolo 4
Che cosa abbiamo intenzione di fare con gli
stupidi?
Non ridiamo più del DNA delle persone. Non ci rifiutiamo più di assumere persone
con certi geni. Né le rendiamo schiave o impediamo loro di votare. Se lo facciamo,
inoltre, quasi tutti riconoscono che ci stiamo comportando molto male. Giustamente.
É un fatto nuovo, com’è ovvio. Soltanto due generazioni fa era perfettamente
accettabile deridere e discriminare persone con la pelle di un altro colore o di diversa
provenienza etnica, le persone molto alte o molto basse, i robusti e i gracili. Nel mio
paese, la gente, anche gente piuttosto simpatica, usava comunemente parole come
“giudei”, “negri”, “nanerottoli” e peggio ancora. Le persone condannate (forse) dal
loro DNA a essere omosessuali erano discriminate non solo dalla massa, ma anche
Al giorno d’oggi pare incredibile che qualche decina d’anni fa in Gran Bretagna
fosse illegale per due uomini adulti andare a letto e fare sesso e che centinaia e
centinaia di omosessuali siano finiti ricattati, rovinati o in prigione per questo motivo
– e parlo degli anni Sessanta, che non furono poi così brillanti. Si poteva essere
discriminati per molte ragioni non genetiche. Gli sciancati, i disabili, i deformi e gli
ustionati venivano tutti presi in giro, spesso in maniera orribile. Il passato era un
posto davvero terrificante.
Ora, per fortuna, la situazione è completamente diversa, quanto meno nei paesi
civili. Va detto, però, che la discriminazione genetica brutale è ancora viva e vegeta
in gran parte del mondo; per citare un solo esempio, in alcuni paesi il possesso dei
testicoli è ritenuto necessario per guidare un’automobile. Questo tipo di
discriminazione è stato spazzato via da numerose leggi di pari opportunità, da una
nuova opinione dominante saggia e liberale, diffusa grossomodo in tutti gli
schieramenti politici. L’attuale leader del Partito conservatore inglese, che
tradizionalmente ha sempre avuto posizioni piuttosto intransigenti in merito alle
politiche sociali, non ha atteggiamenti omofobici o razzisti manifesti. Le persone
“diversamente abili” sono assistite e per aiutarle si eliminano le barriere
architettoniche e si creano appositi spazi. Ridere di qualcuno perché è di pelle nera o
ebreo oggi è quasi inconcepibile, come prendersi gioco dei contadini o assumere
eunuchi di corte.
Vi è però un tipo di pregiudizio genetico che continua a essere perfettamente
accettabile a tutti i livelli della società civile, anzi, forse si può dire che negli ultimi
anni sia diventato più accettabile di quanto sia mai stato in precedenza; si tratta del
pregiudizio nei confronti delle persone nate con un quoziente intellettivo basso. “Che
fare degli stupidi?”, per esprimere la questione nel modo più brutale, è forse il più
grande problema sociopolitico del nostro tempo. É un problema alimentato
dall’ignoranza scientifica, da equivoci intenzionali e da un pregiudizio estremo. É un
tema che la scienza e le scienze sociali si rifiutano di trattare e persino di discutere –
sotto questo profilo, è simile all’allungamento della vita. Tanto la destra quanto la
sinistra hanno escogitato alcune soluzioni – che, come vedremo, sono altrettanto
insoddisfacenti.
Perché mai un libro sui misteri scientifici si occupa di un argomento simile? Non è
una questione politica, di correttezza politica, un argomento da esperti di istruzione e
di sociologia? Ebbene, sì. Ma la questione della variabilità dell’intelligenza umana ha
una fondamentale in uno dei problemi scientifici più antichi e dibattuti: l’importanza
relativa dei geni e dell’ambiente nello sviluppo di un organismo nel corso della sua
vita. Non è un mistero che alcuni siano più intelligenti di altri (anche se a quanto pare
qualcuno continua a contestarlo). A quanto pare, tuttavia, quale sia il modo migliore
di affrontare il problema continua a essere un mistero profondo. I nostri esperti di
scienze sociali e di economia hanno scelto, e per lo più continuano a scegliere, di
ignorare la questione.
Vi sono alcuni ostacoli da superare quando si parla del QI umano. Per alcuni è già
inaccettabile considerare la questione. «Come sarebbe a dire che cosa dovremmo fare
degli stupidi?», mi ha domandato un amico che aveva letto il mio articolo su questo
tema per la rivista politica inglese “Spectator”. «Il solo fatto di domandarlo offenderà
molte persone». Naturalmente, aveva ragione. Soltanto il suggerire che esiste un
problema provocherà qualche guaio. Tanto per cominciare, i dibattiti sull’intelligenza
relativa di persone diverse rischiano sempre di andare a finire in acque davvero
pericolose (anche se, naturalmente, non dovrebbero farlo).
In certi ambienti basta parlare di QI per finire nei guai. Molti criticano i test del QI
giudicandoli privi di significato – «sono una misura della capacità di superare i test
del QI», commentano con sarcasmo – ma il fatto è che, benché sia possibile che non
misuri l’intelligenza pura in sé e per sé, sembra proprio misurare qualcosa di
strettamente correlato con l’intelligenza. Le persone che ottengono punteggi alti nei
test del QI tendono (non sempre, è ovvio) a essere generalmente considerate
“intelligenti”. A volte chi ottiene punteggi altissimi in effetti può essere un po’ strano,
eccentrico, con scarse capacità sociali, ma si tratta di una piccola percentuale. Quelli
che hanno successo nella vita provengono prevalentemente dal gruppo con un
punteggio alto, non basso. Ammettiamo, per amor di discussione, che il termine QI
significhi realmente qualcosa.
Di chi parliamo quando usiamo l’aggettivo “stupido”? Non di chi ha un grave
handicap mentale né di chi ha perso una parte significativa delle funzioni cognitive a
causa dell’invecchiamento, di una lesione o di una malattia. Nella maggioranza delle
società umane ricche, le persone – per dirla in termini brutali – con un QI molto
inferiore a 70 sono assistite dallo stato, oppure con l’aiuto e la guida dello stato,
dentro o fuori dalla comunità. Spesso tali persone non vengono considerate “malate”,
tuttavia si accetta che abbiano difficoltà a svolgere un ruolo attivo nella società senza
qualche aiuto esterno. No, le persone di cui parlo appartengono a una sfortunata terra
di nessuno nella scala del QI – troppo intelligenti per essere considerate davvero
disabili, ma per lo più prive delle capacità intellettuali necessarie per sopravvivere
facilmente in un mondo sempre più basato sulla conoscenza. Queste persone
patiscono discriminazioni sempre e dovunque, di un genere che pervade l’intera
struttura della maggior parte delle società di tutto il mondo. Ed è un genere di
discriminazione che si sta aggravando.
Un fatto di cui non ci si rende minimamente conto è che è piuttosto difficile per
una persona che vive in una società tecnologica, nel “mondo moderno” se volete,
guadagnarsi abbastanza da vivere se è analfabeta – il che 150 anni fa, poniamo, non
era assolutamente vero, perché esistevano molti lavori per cui erano necessari
muscoli più che cervello. Nel 1900 più di un milione di inglesi lavorava nelle miniere
e i contadini erano ancora più numerosi. Nel corso del XIX secolo milioni di
emigranti si riversarono negli USA; alcuni diventarono medici e avvocati, ma per lo
più andarono a lavorare nelle fattorie e nelle nuove fabbriche. Molti fra questi lavori
operai erano altamente specializzati e richiedevano addestramento e intelligenza, ma
non erano la maggioranza. Oggi questi lavori sono quasi del tutto scomparsi.
Com’è ovvio, questo non vuol dire che tutti quei minatori e contadini fossero
analfabeti o dotati di scarsa intelligenza. Molti erano estremamente intelligenti. In
realtà, a quei tempi, quando il posto nella società e le prospettive di lavoro erano
determinate in gran parte da fattori accidentali quali la famiglia e il luogo di nascita,
probabilmente si poteva trovare grossomodo la stessa distribuzione di capacità
mentali tra le classi “inferiori” come tra i ricchi. Oggi questo non può più essere vero.
La percentuale di forza lavoro che può svolgere i compiti per cui è retribuita senza
un titolo di istruzione è al suo minimo storico. Nella maggior parte dei paesi
occidentali, per guadagnare uno stipendio decente occorre molto più cervello che
muscoli. Naturalmente, esistono ancora lavori accessibili a chi è dotato di capacità
esclusivamente fisiche, ma non sono mai stati così pochi. La maggioranza degli
operai non specializzati non è più necessaria e il lavoro manuale è dato in appalto in
misura crescente ai paesi più poveri. Soltanto una minuscola élite può guadagnarsi da
vivere con un’attività sportiva. Forse non è indispensabile una grande intelligenza per
essere un calciatore o una modella di successo, ma è senz’altro necessario avere un
talento fisico e/o un fisico fuori del comune.
Nei paesi occidentali, i lavori considerati “operai” oggi richiedono spesso un
apporto intellettuale significativo. Le “fabbriche” moderne sono i cali center, enormi
ambienti pieni di disgraziati impegnati in un numero infinito di conversazioni
telefoniche riguardanti conti bancari, assicurazioni e tutto il corredo della vita
quotidiana che non si può trattare in un negozio al minuto o su internet. Molti
deridono questi lavori e chi li svolge, forse dimenticando che richiedono capacità
importanti – una buona conoscenza del linguaggio e della natura delle questioni da
discutere, una discreta capacità di conversare e l’abilità di utilizzare un sistema
informatico complesso a una certa velocità. Lavorare in un call center non è come
imballare il fieno o spaccare le pietre.
Allora, quali sono le opzioni accessibili alle persone che proprio non possono
prendere parte alla vita moderna? Molto poche, a quanto pare. Una delle funzioni che
i meno intelligenti possono svolgere è quella di buffone di corte della società. Si
pensi a tutti quegli spettacoli televisivi orribili e crudeli ideati per mettere in vetrina
gli ottusi per il nostro diletto (questo è il vero scopo del Grande Fratello, di Cambio
moglie, di Holidays from Hell e di tutti gli altri terribili reality show che a quanto pare
hanno un gran successo in tutto il mondo). Naturalmente, gli sciocchi sono sempre
stati derisi – ma mi pare che il vetriolo diretto alle persone “non molto intelligenti”
oggi sia una mistura più pericolosa e potente di quanto sia mai stata in precedenza.
Mentre le vecchie barriere di classe vanno a pezzi e le placche tettoniche della società
si riallineano, sono queste persone ad andare inesorabilmente a fondo. E, non essendo
intelligenti, non hanno gli strumenti – né, in particolare, una guida – per cavarsela.
I pericoli di una società in cui l’intelligenza e lo sforzo sono premiati più della
condizione di nascita sono stati osservati per la prima volta dal sociologo Michael
Young. Ne L’avvento della meritocrazia, una satira scritta nel 1958,Young mise in
rilievo che in una società in cui la posizione è definita dal merito – definito come
«intelligenza + sforzo» – l’élite tenderà a ritenere di avere pienamente diritto ai
privilegi di cui gode.
Tutto ciò contrasta in maniera inaspettata con il vecchio sistema basato sulle classi,
che, nonostante tutta la sua violenza, riconosceva implicitamente che la nostra
posizione sociale nella vita è quasi una questione di fortuna, quindi che non
dovremmo vantarci tanto dei nostri successi né schernire i meno fortunati di noi.
Questo nuovo pensiero “meritocratico” si può osservare negli Stati Uniti (anche se in
realtà l’America non è meritocratica come ama considerarsi). Negli USA, si parla
apertamente di “perdenti” o, come dicono, “gente che prende l’autobus” in un modo
che pare estremamente estraneo e scortese a coloro che vivono in società più antiche,
forse stratificate in modo più tradizionale. Se uno è un fallito è tutta colpa sua. Ma
ovviamente quando il punto è l’intelligenza non è affatto così, non più di quanto uno
sia nero o ebreo, molto alto o biondo per colpa sua.
Allora, chi sono questi disgraziati? Nella maggior parte dei paesi sviluppati, circa il
68 per cento della popolazione ha un QI compreso tra 85 e 115 e le percentuali di chi
ha un punteggio superiore o inferiore sono grossomodo uguali.
Nell’ambito e al di sopra della fascia “media”, la maggioranza sarà capace di
cavarsela abbastanza bene nella nostra società, ma che cosa si può dire di quel 10-15
per cento che ha un QI inferiore a 85 e superiore a 70? Oggi molti di loro diventano
inevitabilmente il sottoproletariato genetico degli inabili al lavoro per QI
insufficiente, sempre alla deriva ai margini della società, dove regna la criminalità e
si fa uso di droghe. In gran parte sono in prigione (insieme ai pazzi, ai poveri diavoli
e ai malvagi). Essere un proletario era difficile e pericoloso; far parte del
sottoproletariato è una condizione assai peggiore.
Le persone intelligenti, come gli uomini alti e le donne avvenenti, hanno sempre
guadagnato molto di più, raggiunto posizioni più alte, avuto matrimoni più felici,
condizioni di salute migliori e minori probabilità di finire in prigione in confronto
agli stupidi. Ma il punto è che tale tendenza si rafforza via via che la società diventa
più “avanzata” e dominata dalla tecnologia e dai dati. Un interessante corollario del
valore che attribuiamo oggi alle capacità mentali è il fenomeno relativamente nuovo
della femmina alfa desiderabile.
Fino a poco tempo fa, nella maggior parte delle società essere molto intelligente
non era un gran vantaggio per una donna. Nell’Inghilterra vittoriana, ad esempio, le
opportunità di guadagnarsi da vivere soltanto grazie alle proprie capacità intellettive
erano estremamente limitate per una donna. In base al censimento del 1901, in tutta la
Gran Bretagna le donne medico erano meno di duecento. Andare all’università era
difficile e costoso (senza contare che la maggior parte delle università non consentiva
l’accesso alle ragazze). Una donna poteva diventare maestra, forse, o istitutrice, o
magari, avendo un talento straordinario, guadagnarsi da vivere come scrittrice o come
artista. La maggioranza delle professioni era chiusa, così come il mondo degli affari.
Essere una donna intelligente non accresceva neanche le probabilità di trovare (o di
essere trovata da) un compagno desiderabile. In realtà, le diminuiva, poiché molte
donne intelligenti erano restie a sostenere i sacrifici economici che avrebbero
inevitabilmente seguito il matrimonio. Tradizionalmente, quanto meno in Europa e
nelle sue propaggini, i maschi alfa, che si potevano permettere la prima scelta,
tendevano a scegliere in base alla bellezza e alla famiglia più che all’intelligenza.
L’oca bionda aggrappata al braccio dell’uomo d’affari o del politico di successo è un
cliché orribile, ma contiene un elemento di verità.
La situazione sta cambiando. Le femmine alfa usano le loro capacità mentali per
ottenere vantaggi economici e così ora sono compagne assai più desiderabili. Al
giorno d’oggi, gli uomini potenti e affermati sembrano scegliere come compagne
donne altrettanto potenti e affermate, a differenza di quel che avveniva in passato.
Secondo alcuni scienziati, è un fenomeno che ha qualche conseguenza interessante.
Potrebbe avere un effetto polarizzante sulla “curva a campana” del QI, il grafico
della distribuzione dei quozienti di intelligenza nella popolazione. Se gli uomini e le
donne più intelligenti si attraggono reciprocamente, l’effetto complessivo potrebbe
essere un appiattimento della “campana” – un numero maggiore di persone molto
intelligenti e forse anche di persone molto ottuse. É troppo presto perché l’effetto sia
visibile; dopo tutto, il fenomeno delle femmine alfa è nato da pochissimo tempo. Fino
agli anni Sessanta, nella maggior parte delle professioni le donne erano ancora
obbligate a dimettersi al momento del matrimonio e le donne con un impiego
governativo erano, apertamente e ufficialmente, pagate meno dei colleghi maschi per
svolgere le stesse mansioni. Oggi vi è ancora una differenza del 30 per cento tra gli
stipendi, anche se le ragioni non vengono più dichiarate in modo altrettanto chiaro.
Un’altra ipotesi interessante è che questi nuovi modelli di accoppiamento umano
spieghino, quanto meno in parte, la sconcertante epidemia di autismo. Oggi vengono
diagnosticati disturbi dello “spettro autistico” a una percentuale di bambini più alta,
molto più alta, rispetto a quanto avveniva soltanto due generazioni fa. Il dato relativo
agli USA, ad esempio, nel 1970 era di 1 ogni 2500, mentre oggi è dell’1 per cento –
un aumento sorprendente, che si è avuto anche in molti altri paesi. La causa del
fenomeno è misteriosa. É troppo recente per essere una sorta di deriva genetica
generale. A questo proposito, sono stati tirati in ballo vari fattori ambientali, in
particolare l’esposizione a certe combinazioni di vaccini. In Gran Bretagna molti
continuano a essere convinti, dopo campagne mediatiche di alto profilo, che la
vaccinazione tripla MMR (contro il morbillo, la parotite e la rosolia) somministrata
sistematicamente ai bambini piccoli possa scatenare l’autismo, anche se l’opinione
dominante tra gli scienziati è che un tale collegamento non esista. Com’è ovvio, gran
parte dell’aumento dei casi di autismo può essere attribuito al miglioramento della
diagnosi. Che, però, non può spiegare completamente il fenomeno.
Una possibile spiegazione è stata presentata dallo psicologo Simon Baron Cohen,
direttore dell’Autism Centre dell’Università di Cambridge. Baron Cohen ritiene che il
cosiddetto “accoppiamento assortativo” potrebbe avere un ruolo nell’autismo, e
precisa che è sempre più probabile che un uomo si accoppi e abbia figli con una
donna con un cervello “maschile” – logico e sistematico. In un articolo pubblicato nel
2006 sulla rivista “Seed”, Baron Cohen scriveva:
Si consideri che alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso meno del 2 per
cento degli studenti del MIT (un’università che soddisfa le richieste di studenti
con buone capacità di sistematizzazione) era di sesso femminile. Oggi la
percentuale femminile degli iscritti è balzata al 50 per cento. Questo microcosmo
è solo uno degli esempi di come i cambiamenti della società abbiano favorito
l’avvicinamento reciproco dei grandi sistematizzatori.
Nello stesso periodo, anche i viaggi aerei hanno fatto aumentare le occasioni di
incontro tra persone di origini completamente diverse, riunite a volte dal comune
interesse per lo studio dei sistemi. Da ultimo, per effetto della rivoluzione
digitale, nello stesso arco di tempo sono nate nuove opportunità di lavoro per gli
individui che sono sistematizzatori. Mentre 50 anni fa un forte sistematizzatore
avrebbe potuto trovare lavoro come contabile, oggi qualsiasi posto di lavoro ha
bisogno di impiegati pratici di computer e chi è dotato di buone capacità di
sistematizzazione può ricevere compensi economici enormi.
La tesi di Baron Cohen ha suscitato qualche controversia, sia tra quanti sono
convinti che l’autismo debba avere in primo luogo una causa ambientale sia tra quanti
sostengono che mettere nello stesso discorso i geni e qualsiasi aspetto della mente
vuol dire essere nazisti.
Tradizionalmente, i sostenitori della teoria della tabula rasa, ideologicamente
contrari all’ipotesi che esistano differenze innate nelle capacità mentali, risolvono
brillantemente il problema del Ql negandone l’esistenza. Questo modo di ragionare
ha prodotto il modello delle scienze sociali, bizzarro e oltremodo controproducente,
che ha preso piede nelle scuole occidentali di ogni ordine e grado negli anni Sessanta
del Novecento.
É la soluzione tradizionale della sinistra ben intenzionata: fingere che gli stupidi
non esistano. Si tratta di un atteggiamento pericoloso e nocivo, soprattutto per gli
stupidi. La politica educativa di molti paesi occidentali, in particolare della Gran
Bretagna e di certe zone degli USA, continua a riflettere questo pensiero. Facendo
finta che tutti i bambini siano uguali, e insistendo accanitamente sull’inclusività (che
contempla la possibilità che il bambino gravemente disabile venga educato nelle
scuole tradizionali, a danno del soggetto stesso e dei suoi compagni di classe più
dotati), i bambini meno intelligenti sono stati abbandonati a se stessi, bocciati dai
docenti che sono obbligati a insegnare al mitico bambino medio (quello che spesso,
misteriosamente, non si presenta alle lezioni) e da un sistema di esami che alla fine
premia solo il merito scolastico. Così milioni di adolescenti lasciano la scuola
marchiati dalla bocciatura, incapaci di soddisfare i criteri di merito scolastico, ma
senza una formazione alternativa mirata allo sviluppo di capacità in cui potrebbero
essere in grado di eccellere.
Ben più risalto si è dato al fatto che questo sistema boccia anche i ragazzi molto
brillanti. É possibile, ma credo che avvenga più raramente. I ragazzi intelligenti di
solito sanno badare a se stessi e in ogni caso tendono a ricevere il grosso
dell’educazione di base dai genitori e dai libri. I vantaggi che si hanno nella vita,
dopo tutto, tendono a essere acquisiti ancor prima di nascere. No, sono quelli che
stanno sotto la media a soffrire di più quando si fa finta che tutti siano uguali.
Del resto, è davvero molto strano credere che gli stupidi non esistano. Per esserne
convinti, infatti, è necessario credere che la componente genetica dell’intelligenza
umana (o di chiunque altro) sia scarsa o nulla, e questo non può essere vero – e non ci
sono motivi che inducano a crederlo (a meno che la nostra mente non appartenga a
qualche oscuro fantasma nella macchina, e non a un essere umano in carne e ossa).
Non ho mai capito perché persone che accettano tranquillamente l’esistenza di
differenze genetiche, ad esempio nelle capacità atletiche, nella predisposizione alle
ustioni solari e anche in tratti complessi quali la sessualità, rimangono
fondamentalmente incapaci di capire che anche la nostra mente può avere una forte
componente genetica.
Ovviamente è proprio così, e dubitarne è un po’ ridicolo, poiché in caso contrario
gli esseri umani non sarebbero più intelligenti delle sogliole.
Un eccellente volume dell’autore inglese Matt Ridley, Il gene agile. ha nuova
alleanza fra eredità e ambiente, spiega il funzionamento congiunto dell’ambiente e
dei geni. Un bambino che ha un DNA della categoria “Einstein” per sviluppare il suo
potenziale ha comunque bisogno di genitori desiderosi di appoggiarlo, di libri, di
istruzione e così via. L’ambiente libera il potenziale che è nei geni (così come una
buona alimentazione libera il potenziale genetico per essere alti). Ma questo non vuol
dire che i geni non contino. La soluzione della sinistra – gli stupidi non esistono – è
semplicemente improponibile.
E la destra? Che cos’ha da dire? Per “destra” intendo anche quei regimi comunisti i
cui sistemi di istruzione si basavano in gran parte sul modello prussiano di rigorosa
suddivisione degli allievi in gruppi a seconda delle capacità e del rendimento, che poi
venne riprodotto nella vecchia Unione Sovietica. E inserisco nell’elenco anche quegli
educatori controrivoluzionari che si ammantano di rigore tradizionale e quelle società
e istituzioni che si dichiarano meritocratiche e premiano deliberatamente la
“capacità”, quando tale capacità ha sempre una grande componente intellettuale. La
soluzione della destra al problema della stupidità consiste nell’accettare l’esistenza
degli stupidi, ma ignorarli e sperare che scompaiano nel nulla.
È interessante cercare di immaginare che cosa succederà all’intelligenza umana,
poiché sembrano essere in azione forze molto intense e contrastanti. Forse un
centinaio d’anni fa i muscoli contavano ben più di oggi, ma è possibile che un
migliaio di anni fa fosse vero il contrario. Non sappiamo che cosa abbia guidato
l’evoluzione del nostro bizzarro cervello affamato di energia, ma si ritiene probabile
che la capacità di sviluppare e acquisire tecnologia non sia la causa principale del
processo, bensì un suo vantaggioso effetto collaterale. In base a un ragionamento
convincente, è possibile che la nostra intelligenza si sia sviluppata come strumento
sociale. Abbiamo un cervello grosso perché è utile per comunicare e scambiare
informazioni. L’acquisizione del linguaggio ha preceduto l’acquisizione
dell’intelligenza? Non lo sappiamo.
Quali che siano le sue origini, il grosso cervello umano diventò un utile strumento
di sopravvivenza. Forse una grande intelligenza poteva conferire una posizione
sociale migliore, e quindi maggiori possibilità di scelta del partner. Forse essere
intelligenti poteva accrescere le probabilità di sopravvivenza, specie dopo lo sviluppo
della tecnologia. È ragionevole pensare che gli individui intelligenti fossero cacciatori
e raccoglitori migliori e probabilmente anche più abili nell’accudire i bambini e nel
fare progetti. Prima dello sviluppo del lavoro specializzato, che iniziò insieme alla
rivoluzione agricola del neolitico, probabilmente per riuscire a sopravvivere un essere
umano doveva essere dotato di mille capacità. Sono solo congetture, ma è plausibile
che nella tarda Età della Pietra la mera forza muscolare non fosse più utile di quanto
sia oggi.
Sappiamo che il cervello umano è cresciuto nel corso del tempo. Il cranio di
persone che vissero 80.000 anni fa è sempre più grande del cranio degli ominidi
vissuti in epoche precedenti. I vantaggi conferiti dall’intelligenza sono tanto evidenti
che con tutta probabilità a guidare l’espansione del cervello è stata semplicemente la
selezione naturale. Ma ne discende immediatamente una domanda: che cosa accadrà
ora? Alcuni scienziati parlano di Homo sapiens come della prima specie
postevolutiva. Con la consapevolezza della nostra evoluzione, più la tecnologia e i
mezzi necessari per influenzare e persino negare le forze tradizionali della selezione
naturale, che cosa accadrà al nostro cervello ora? Si ridurrà o continuerà a crescere?
Una delle ipotesi è che diventeremo più ottusi. Il ragionamento è questo: nella
maggior parte delle società occidentali, le persone poco istruite tendono ad avere più
figli di chi si è laureato. Poiché l’intelligenza ha una forte componente ereditaria, il
fenomeno tenderà a far diminuire il QI medio. Questo argomento ha qualche punto
debole. Innanzitutto, la tendenza dei gruppi socioeconomici inferiori ad avere più
figli di altri gruppi è piuttosto nuova e geograficamente limitata e potrebbe essere
molto transitoria. Tradizionalmente, ad esempio in Europa, erano i benestanti a
potersi permettere di avere molti figli. Le donne del ceto elevato di solito si
sposavano prima e avevano più figli delle donne più povere, che in generale
dovevano contribuire all’economia della famiglia lavorando. É pur vero che in paesi
con uno stato sociale particolarmente sviluppato la fecondità è fortemente correlata
con una bassa posizione socioeconomica, ma non è affatto un fenomeno universale.
In paesi in cui il welfarismo è meno diffuso, come gli USA, le persone benestanti e
istruite possono avere più figli dei poveri, come in effetti accade.
In secondo luogo, vi è il fatto innegabile e piuttosto misterioso che a quanto pare,
invece, stiamo diventando più intelligenti. In quasi tutte le società industriali, i QI
medi sono aumentati in modo spettacolare negli ultimi cinquant’anni. Non può essere
dovuto all’evoluzione – in così poche generazioni la selezione naturale, la deriva
genetica o qualche altro meccanismo evolutivo non possono aver effetto. Deve
esistere qualcosa che agisce sulla componente genetica dell’intelligenza per tirar fuori
il “meglio” dal nostro cervello. Ciò che veniva considerato “piuttosto intelligente” tre
generazioni fa oggi è del tutto ordinario. Quale può essere stata la causa?
Esistono diversi candidati. Uno è il miglioramento dell’alimentazione. Questo
fattore potrebbe spiegare lo spettacolare aumento del QI in alcuni paesi asiatici dopo
la Seconda guerra mondiale, ma non spiegherebbe in maniera soddisfacente perché il
QI è cresciuto anche in paesi come gli USA, la Gran Bretagna e la Francia, dove
l’alimentazione non è cambiata in maniera significativa negli ultimi 50 anni. Per la
verità, probabilmente l’alimentazione degli inglesi durante e subito dopo la Seconda
guerra mondiale fu migliore di quanto sia mai stata prima o dopo. Il razionamento del
cibo ebbe come conseguenza una maggiore quantità di cibo, di qualità migliore, per
la maggioranza della popolazione. Ciò nonostante, probabilmente gli inglesi del
periodo di austerità erano un poco più ottusi di quanto siano oggi.
Il miglioramento dell’istruzione deve aver avuto un effetto, ma anche in questo
caso non è affatto dimostrato che il fenomeno possa aver avuto una grande influenza
in intervalli di tempo così esigui, quanto meno nei paesi dell’Europa occidentale.
Secondo una spiegazione popolare, che però non pare centrare il bersaglio, è tutto
merito della televisione. Lungi dall’essere un “elettrodomestico che rincretinisce”,la
TV potrebbe dar forma al cervello dei nostri bambini martellandolo con il suo
guazzabuglio di complesse e ininterrotte stimolazioni visive. Secondo questa teoria,
può anche darsi che non sia affatto importante quali programmi si guardano;
probabilmente i cartoni animati valgono tanto quanto Discovery Channel. É un’idea
interessante (un contributo potrebbe arrivare anche dai videogiochi), ma è non è
affatto dimostrata.
Il problema del QI basso probabilmente non verrà mai affrontato. L’intelligenza,
differentemente dal colore della pelle, dall’attività atletica, dall’altezza, dal peso e da
ogni altro attributo influenzato dai geni, è una caratteristica essenziale dell’essere
umano. Coloro che sono poco intelligenti non sono considerati propriamente umani.
Vengono lasciati indietro sempre più velocemente e il fenomeno diventerà globale se
e quando il mondo in via di sviluppo inizierà a raggiungere lo stesso livello
economico dei paesi industriali. Nelle società più intensamente tecnocratiche, come
quelle di certi paesi asiatici, in cui il successo nella vita è quasi completamente
determinato dalla capacità di superare una serie di ostacoli scolastici oltremodo
difficili, non avere una grande intelligenza dev’essere davvero molto arduo. Una
soluzione, naturalmente, consiste in un enorme miglioramento della qualità
dell’istruzione. In qualsiasi società, un’istruzione migliore potrebbe far raggiungere
un QI medio a una buona percentuale delle persone intellettualmente meno dotate.
Ma con tutta la buona volontà e le migliori scuole del mondo, qualcuno resterà
sempre indietro.
Chi non è tanto intelligente viene deriso, è meno sano, può scegliere tra un numero
più limitato di partner, ha maggiori probabilità di essere disoccupato e povero e
probabilità ancora più alte di scivolare nel crimine. Vive in una società che non solo
lo deride, ma che piazza sulla sua strada tutta una serie di ostacoli ideati
deliberatamente in modo da farlo inciampare. É una palese ingiustizia. Quando mai
qualcuno se ne occuperà?
Capitolo 5
Che cos’è il lato oscuro?
Verso la fine del 2005, ho avuto il privilegio di esplorare una delle meraviglie del
mondo moderno. Sepolto a 100 metri di profondità nei pressi di Ginevra, al confine
tra Francia e Svizzera, c’è un tunnel grossomodo circolare lungo circa 27 chilometri.
Il tunnel ha pareti rivestite di cemento grigio, un pavimento dipinto ed è largo quasi
tre metri. Potrebbe essere un’ottima pista da corsa, anche se immagino che sarebbe un
po’ snervante correre tra quelle pareti che si curvano sgradevolmente all’infinito in
entrambe le direzioni. In effetti, nel tunnel si è svolta qualche gara non ufficiale; un
buon tempo per completare il circuito è pressappoco due ore. Un mezzo di trasporto
più comune è la bicicletta, o una sorta di monopattino elettrico a due ruote. È stata
una vera fortuna poter entrare nel tunnel: ora per un bel po’ nessuno potrà più
percorrerlo.
Il tunnel fa parte di una delle imprese ingegneristiche più impressionanti della
storia, uno strumento scientifico straordinario sia per le dimensioni sia per gli intenti.
Al pari dei più grandi telescopi del mondo, che si trovano sui picchi delle Canarie e
del Cile, il gigantesco tunnel per la collisione di particelle del CERN (Conseil
Européen pour la Recherche Nucléaire) è un colosso da molti miliardi di dollari
progettato allo scopo di rivelare le realtà più profonde del nostro universo.
In vari punti attorno all’anello del CERN si trovano alcune delle più imponenti
realizzazioni ingegneristiche che mi sia mai capitato di vedere: anelli poligonali
smisurati, fatti di ghisa grezza russa, acciaio inglese, titanio francese e plastica
tedesca, e alcune migliaia di metri di cavi elettrici e condutture. Queste strutture sono
grandi e pesanti come intere navi e sono state calate sottoterra in caverne artificiali
delle dimensioni di una cattedrale. É un esempio di Grande Scienza. Nel novembre
del 2007, dopo qualche cerimonia attorno al pulsante di accensione, queste
gigantesche strutture saranno testimoni della prima collisione forzata tra pacchetti di
particelle
6
. Protoni e neutroni, i pesi massimi dello zoo subatomico, verranno
accelerati nell’anello da giganteschi magneti superconduttori e si scontreranno tra
loro a velocità prossime a quella della luce.
Il Large Hadron Collider (LHC) è l’esperimento di fisica più grande e più costoso
della storia. Si pone diversi obiettivi, tutti ambiziosi. Uno di questi è trovare la
particella di Higgs, un oggetto (o dovremmo chiamarlo campo?) che secondo i fisici
pervade l’universo e dà massa a tutte le particelle.
6
Nel giugno 2007 il CERN ha reso noto che a causa di alcuni ritardi e problemi lo start up dell’LHC è stato rimandato
al maggio 2008. [N.d.R.]
Nota dello scansionatore: il 10 settembre 2008 lo sturtup ha avuto un grossissimo successo, vedi sito ufficiale:
https://lhc2008.web.cern.ch/LHC2008/
Un altro obiettivo è quello di scoprire la natura della materia oscura. È un’ottima
cosa che si sia realizzata questa enorme macchina, perché la materia oscura è tra i
massimi motivi di imbarazzo per la scienza e la sua natura è uno dei più importanti
misteri irrisolti.
A differenza di altri problemi descritti in questo libro, della materia oscura i fisici
sanno poco o nulla; in realtà, non abbiamo la più pallida idea né della sua natura né
della sua origine. É misteriosa come la coscienza umana. Si pensa che circa il 4 per
cento di tutta la “sostanza” dell’universo (massa + energia) sia composto da materia
ordinaria e dal comportamento ragionevole, cioè quella che forma i pianeti, le stelle,
me che scrivo e voi che leggete. La materia oscura, qualunque cosa sia, rende conto
di un altro 22 per cento (quindi nell’universo la quantità di materia invisibile è cinque
volte e mezzo superiore a quella della materia visibile). Il resto è composto da energia
oscura, una parente ancora più folle e misteriosa della materia oscura, di cui parlerò
in seguito.
Sulla natura della materia oscura abbiamo qualche idea, ma niente di concreto.
Grazie alla costruzione di enormi acceleratori di particelle come l’LHC, nell’arco di
pochi anni, o forse mesi, potremmo passare da uno stato di completa ignoranza alla
piena comprensione di uno dei più grandi misteri dell’universo. Sarebbe un risultato
straordinario.
Anche se la materia oscura è la “sostanza” di gran lunga più comune dell’universo,
in realtà nessuno ha la più pallida idea di che cosa sia. I fisici sperano che le altissime
energie generate dalle collisioni all’interno dell’LHC facciano uscire dal loro
nascondiglio le particelle che formano la materia oscura. Se mai si riuscirà a
comprendere l’energia oscura rimane una questione aperta.
É da molto che la materia oscura mette in difficoltà i cosmologi. Dagli anni Trenta
gli astronomi hanno la sgradevole consapevolezza che la quantità di materia visibile
nell’universo non è affatto sufficiente per spiegare il movimento delle stelle e galassie
che osserviamo.
Nel 1933, l’astronomo svizzero Fritz Zwicky, all’epoca al California Institute
Technology (Caltech), analizzando il movimento di un ammasso di galassie scoprì
che lo si sarebbe potuto spiegare solo se nella regione in esame si fosse celata una
gran quantità di massa invisibile – molto di più di tutta la sostanza visibile, che in
massima parte costituisce le stelle. Al giorno d’oggi, tale anomalia è stata rilevata in
ogni punto dell’universo che osserviamo. I grandi oggetti visibili nell’universo (le
galassie e le stelle che ne fanno parte) si comportano come se fossero circondati da
un’enorme quantità di materia invisibile.
La ricerca della materia mancante nell’universo è diventata una delle vicende più
appassionanti della scienza e le teorie proposte sono molto numerose. Forse la
materia oscura è semplicemente sostanza ordinaria difficile da vedere – rocce,
asteroidi, pianeti solitari o stelle nane dalla luce troppo flebile per poter essere
rilevati. O forse è fatta di grandi nubi di polvere e gas.
Una parte della materia mancante è semplicemente questo, senza dubbio, ma per la
maggior parte non può esserlo. Se fosse un tipo di materia ordinaria lascerebbe una
traccia inconfondibile sotto forma di una radiazione riflessa di energia
elettromagnetica, che però non è mai stata osservata. Oggi la maggioranza dei fisici
crede che la materia oscura sia composta da qualche particella subatomica nuova. La
favorita è un’ipotetica particella chiamata assione. Gli assioni, che vennero proposti
nel 1977 per semplificare alcune equazioni in cui compariva l’interazione nucleare
forte (una delle forze fondamentali della natura), sono buoni candidati come particelle
di materia oscura perché hanno una massa molto piccola (ma certamente non nulla),
tale da interagire molto poco con la materia.
Una prova lusinghiera dell’esistenza di particelle molto simili agli assioni è stata
fornita, nel giugno del 2006, dai Laboratori Nazionali di Legnare dell’iNFN (Istituto
Nazionale di Fisica Nucleare), in Italia, dove un acceleratore di particelle ha generato
un leggero spostamento nella polarizzazione di un fascio laser inviato in una regione
sotto vuoto spinto in cui era presente un forte campo magnetico. La scoperta è
controversa, ma all’inizio del 2007 “New Scientist” ha segnalato un tentativo di
convincere i responsabili dell’acceleratore HERA, prossimo alla chiusura, a
mantenerlo operativo per cercare di duplicare il risultato, poiché è l’unico
acceleratore esistente che potrebbe servire allo scopo. Per il momento, però, la
materia oscura continua a essere terra incognita per la fisica.
Comunque, c’è anche una buona notizia. Forse ancora non sappiamo che cosa sia
la materia oscura, ma per lo meno abbiamo individuato dove si nasconde. All’inizio
del 2007, Richard Massey e i suoi colleghi del Caltech, hanno pubblicato su “Nature”
la prima “immagine” della distribuzione della materia oscura in una regione estesa
dell’universo vicino. Non potendo osservare direttamente la materia oscura, ne
deduciamo l’esistenza dagli effetti che produce sugli oggetti visibili
7
.
L’équipe di Massey ha costruito la mappa sulla base di quasi mille ore di
osservazioni di circa mezzo milione di galassie, effettuate con il telescopio spaziale
Hubble utilizzando la cosiddetta tecnica della lente gravitazionale debole. La materia
oscura, benché invisibile e trasparente, esercita una forza di gravità e quindi, come
qualsiasi altro oggetto, influenza la luce o qualsiasi altra radiazione che l’attraversi o
le passi accanto. In parole povere, se c’è della materia oscura tra voi e la galassia che
state osservando, la direzione della luce proveniente da quella galassia verrà deviata
leggermente perché la materia oscura si comporta come una lente gigantesca. Il
gruppo di Massey ha tracciato la mappa delle alterazioni trovate nelle immagini del
telescopio Hubble per stabilire la posizione di queste lenti invisibili.
Il fisico Eric Linder, del Lawrence Berkeley National Laboratory, ha presentato su
“Nature” un paragone poetico tra l’analisi di Massey e una vecchia tecnica che si usa
qui sulla Terra:
Così come navigatori polinesiani si accorgono di un’isola che sta al di là
dell’orizzonte visivo perché fa deviare la direzione delle onde oceaniche, i
cosmologi possono disegnare una mappa della concentrazione di materia non
visibile nell’universo grazie alla deviazione gravitazionale della luce proveniente
dalle sorgenti che le stanno dietro.
Apparentemente, la materia oscura non è distribuita in modo casuale. É
7
R. Massey, Dark Matter Mapped, in “Nature”, edizione on-line, 7 gennaio 2007.
raggruppata in enormi agglomerati a una scala dimensionale maggiore di quella delle
stesse galassie. La combinazione dei dati di Hubble con le osservazioni da terra ha
prodotto una mappa tridimensionale approssimativa della materia oscura. Sembra
formare una sorta di struttura portante su cui è montata la materia visibile
dell’universo, le galassie. Gli ammassi di galassie visibili sembrerebbero immersi in
vasti raggruppamenti di materia oscura collegati da giganteschi ponti di materia
oscura, detti filamenti.
I cosmologi sospettano che all’inizio della formazione dell’universo la materia
oscura abbia formato una specie di armatura attorno alla quale si è potuta coagulare la
materia “normale”. Anche oggi sembra che la materia oscura sia concentrata in
galassie fantasma. Alcune osservazioni recenti di “nane sferoidali”, piccole galassie
fioche rilevate in orbita attorno alla Via Lattea e alla grande spirale di Andromeda,
hanno rivelato che sono costituite quasi completamente di materia oscura, poiché la
materia ordinaria fu strappata via miliardi di anni fa dalla forza di gravità esercitata
dalle due gigantesche vicine.
Quando Edwin Hubble, nel 1920, capì che l’universo è enormemente più grande
della singola galassia con cui veniva identificato, che si espande a una velocità
mostruosa e che molto probabilmente i confini dello spaziotempo saranno sempre al
di là del nostro raggio di osservazione, forse fu il trionfo definitivo della visione
copernicana, la retrocessione degli esseri umani e delle loro faccende alla periferia
della creazione. Ma la scoperta della materia oscura e, come vedremo, dell’energia
oscura spinge il “nostro mondo” ancora più ai margini di ciò che sembra importante.
Non solo il nostro piccolo pianeta ruota attorno al Sole, non solo la nostra galassia è
una dei tanti milioni di galassie esistenti, ma si scopre anche che queste innumerevoli
galassie sono fatte di un tipo di sostanza secondaria che non è che un’aggiunta alla
parte più cospicua dell’universo.
Se la materia oscura è terra incognita, l’energia oscura corrisponde ai draghi che la
popolano. Costituisce i restanti tre quarti della parte mancante di massa-energia
dell’universo. Sembra un’idea da fantascienza, degna forse del miglior Asimov, ma
sembra proprio che sia reale.
L’energia oscura è uno strano campo di forze che pervade tutto lo spazio, creando
una forza repulsiva che sembra essere la causa dell’espansione dell’universo. Einstein
fu il primo a ipotizzarne l’esistenza. Lo giudicava un malaugurato baco nelle sue
equazioni, il “più grosso errore” che avesse mai commesso. Ma oggi i fisici
convengono che per spiegare l’universo che possiamo vedere è necessario qualcosa di
molto simile al baco einsteiniano, una forza repulsiva che contrasti la tendenza delle
galassie a collassare le une sulle altre a causa della reciproca attrazione
gravitazionale.
Anche se Einstein fu il primo ad accennare all’esistenza di un misterioso campo di
forze onnipresente, fu solo nel 1989 che gli astronomi si resero conto che
l’espansione dell’universo – o per meglio dire l’espansione della trama dell’universo,
lo spaziotempo, in cui sono inseriti i superammassi di galassie – in passato era più
lenta di oggi e quindi sta accelerando.
La scoperta è avvenuta osservando supernove lontane, che si possono usare come
marcatori della velocità di espansione di regioni remote dell’universo, proprio come i
galleggianti di colori vistosi che gli idrologi lanciano nei fiumi per misurare la
velocità dell’acqua. Una spiegazione può essere che la gravità operi in maniera
differente a scale diverse. Ma oggi l’esistenza di una forma di energia che spinge le
galassie ad allontanarsi le une dalle altre è un’ipotesi largamente accettata.
In un articolo pubblicato nel febbraio 2007 su “Scientific American”, l’astronomo
Christopher Conselice ha fornito una buona descrizione dell’essenza dell’energia
oscura:
É proprio la grande diffusione dell’energia oscura il motivo per cui è stato così
difficile riconoscerla. L’energia oscura, a differenza della materia, non è
raggruppata in certi punti più che in altri; per sua stessa natura, è diffusa in modo
uniforme dappertutto.
8
Alle piccole scale, l’energia oscura non è certo molto abbondante. Ogni metro
cubo di universo ne contiene all’incirca 10
−26
chilogrammi (in base alla famosa
equazione di Einstein E = mc
2
), che equivalgono più o meno a una manciata di atomi
di idrogeno. Tutta l’energia oscura presente nel nostro sistema solare corrisponde alla
massa di un piccolo asteroide. Ma l’energia oscura, a differenza di un corpo celeste, è
davvero dappertutto. Nel mio salotto ce ne sarà qualche atomo e nella mia testa uno o
poco più.
Se c’è qualcosa di cui l’universo non è carente è il volume. Le distanze e gli
intervalli di tempo cosmologici hanno dimensioni tali che gli effetti dell’energia
oscura sono a dir poco sostanziali. L’energia oscura agisce come un gigantesco
scultore cosmico, determinando non solo la velocità di espansione dell’intero
universo, ma anche la configurazione dell’“armatura” di scala più piccola a cui si
appendono le galassie.
D’altra parte, l’energia oscura ha un effetto trascurabile su qualsiasi oggetto più
piccolo di un superammasso. Ad esempio, non sta facendo espandere la nostra
galassia (non ancora, per lo meno). A scale dell’ordine di migliaia di anni luce o
meno è la gravità a dominare. E solo quando si raggiungono dimensioni dell’ordine
di milioni o centinaia di milioni di anni luce che l’energia oscura fa sentire la sua
presenza.
Vi sono altre ragioni per cui l’energia oscura potrebbe essere significativa.
L’universo “attuale” è molto diverso da quello iniziale. Le galassie di oggi, vale a
dire quelle relativamente vicine, sono entità grandi e stabili in confronto agli
agglomerati di stelle in violenta collisione osservati quando l’universo aveva la metà
dell’età attuale. Pare che la formazione delle stelle sia rallentata.
Sembra inoltre che alcuni degli oggetti più impressionanti dell’universo si siano
estinti; non può essere un semplice caso che nell’universo vicino non si trovino
oggetti come i quasar e le violente radiogalassie che si osservano a distanze
dell’ordine di miliardi di anni luce. Si ritiene che i quasar siano alimentati da buchi
neri supermassivi, simili, per lo meno superficialmente, a quelli che si trovano al
centro della Via Lattea. Ma il cuore della nostra galassia non è un quasar e il buco
8
C. Conselice, The Universe’s Invisible Hand, in “Scientific American”, febbraio 2007.
http://www.sciam.com/article.cfm?chanID=saoo6&colID=i&articleID=i356B82BE7F2-99DF-30CA562C33C4F03C).
nero che vi si trova sembra avere un comportamento ragionevole (per nostra fortuna).
Alcuni astronomi scorgono la mano dell’energia oscura nell’evoluzione cosmica
osservata.
Disgraziatamente, l’energia oscura non si comporta come tutti gli altri campi di
forze. Non è come la gravità (che è generata dalla massa) né come le forze nucleari o
elettromagnetiche. Sembra che abbia origine dal nulla, dal vuoto stesso. L’energia del
vuoto è uno dei candidati preferiti come energia oscura, ma il problema è che i fisici,
quando cercano di calcolare quanta energia dovrebbero produrre le fluttuazioni
quantistiche del vuoto, ottengono valori 10
120
volte superiori a quelli che sembra
effettivamente avere l’energia oscura.
Si tratta di un primato piuttosto imbarazzante: oggi per nessun altro fenomeno
studiato dalla scienza si presenta una tale disparità fra valori teorici e valori
sperimentali. Si sospetta che sia stata proprio l’energia oscura a rendere grande il
“Bang” e ad alimentare la stupefacente espansione dell’universo negli istanti
immediatamente successivi. Tuttavia, come nel caso della materia oscura, nessuno sa
veramente che cosa sia, come sia stata generata e perché da allora, se davvero è stata
la sorgente energetica del Big Bang e della successiva inflazione cosmica, la sua
intensità si sia tanto attenuata. Inoltre, anche se oggi sembra l’ombra di se stessa,
alcuni modelli prevedono che l’energia oscura tornerà a essere una forza dominante
dell’universo, tale da eguagliare e persino sostituire la gravità come scultore
principale della materia alla scala planetaria e anche a scale più piccole, non solo alla
scala cosmologica.
Un giorno l’energia oscura potrebbe diventare talmente forte da smembrare i
sistemi stellari, spingendo i pianeti fuori dalle loro orbite, e perfino da ridurre in
polvere le stelle e i pianeti stessi. Uno scenario escatologico prevede che l’azione
dell’energia oscura potrebbe persino arrivare a fare a pezzi i singoli atomi e
frammenti di atomi: l’universo esploderebbe in un “Big Rip”, un “grande strappo”
che ne distruggerebbe la struttura fisica.
Nel medio termine, noi (o meglio “noi”, nel senso di esseri viventi intelligenti in
generale, nel caso ne esistessero altri oltre a noi) potremmo avere un motivo per
essere grati all’energia oscura, poiché sembra certo che se non altro “salverà”
l’universo da uno dei destini più terrificanti che siano stati ipotizzati, il cosiddetto Big
Crunch (“grande collasso”), che sarebbe il nostro futuro se un giorno l’attrazione
gravitazionale reciproca dovesse averla vinta sull’espansione cosmologica. Ma alla
fine saremo comunque preda dell’energia oscura proprio come se il nostro destino
fosse necessariamente di rivivere un’incandescente replica del Big Bang proiettata al
contrario.
Alcuni scienziati sperano che la materia oscura e l’energia oscura spariscano
semplicemente dalle scene. Come molti cercano di dimostrare, entrambe potrebbero
derivare da errori sostanziali o interpretativi della fisica quantistica o della relatività.
Forse l’energia oscura non esiste e dovremo riconsiderare le nostre idee sull’azione
della gravità a distanze e scale temporali enormi. Comunque, tanto la materia oscura
quanto l’energia oscura stanno dimostrando di essere mostri che si rifiutano di essere
domati e nessuna delle due sarà così servizievole da scomparire dalle equazioni:
l’opinione prevalente tra i fisici è che l’universo stia sciamando insieme a una
quantità di materia indefinibile pari a miliardi di miliardi di soli e che tutto quanto si
stia gonfiando ed espandendo a causa di uno strano campo di forza antigravitazionale
che forse un giorno lo farà a pezzi.
La materia oscura e l’energia oscura sono forse l’ultima trovata dell’universo per
farci sentire piccoli. La contemplazione dei grandimisteri della natura ha portato
l’umanità a costruire macchine gigantesche. Le grandi architetture preistoriche che si
trovano nell’Inghilterra meridionale e in Francia erano calcolatori astronomici, i
Large Hadron Collider di quel tempo.
È giusto che oggi Hubble, ormai al crepuscolo della vita, sia usato per tracciare la
mappa delle enormi fasce di materia oscura che dominano il nostro universo. Hubble
l’ha trovata e l’LHC del CERN potrebbe ancora rivelare di che cosa si tratta. É
divertente pensare che tra qualche migliaio di anni gli archeologi potrebbero scoprire
i resti arrugginiti e fatiscenti degli acceleratori del CERN e domandarsi quale scopo
potessero avere, proprio come facciamo oggi con Stonehenge.
Capitolo 6
L’universo è vivo?
Se la materia oscura è strana, la vita è assolutamente bizzarra. Essendo noi stessi
vivi, tendiamo a darla per scontata, eppure anche dal punto di vista più elementare e
fondamentale che cosa significhi appartenere al mondo degli esseri viventi e non a
quello degli oggetti inanimati è qualcosa di stranamente vago e indefinito. Forse la
vita è la caratteristica più misteriosa del nostro universo. Il fatto che esista significa
che l’universo, quanto meno in un luogo, e forse in innumerevoli altri, ora è
consapevole della propria esistenza.
Non sappiamo come, dove né quando sia iniziata la vita. Ignoriamo se sulla Terra
sia iniziata una o più volte. Non siamo neanche certi che la vita, la nostra, sia iniziata
su questo pianeta o altrove. Non sappiamo se la vita sulla Terra sia un fenomeno
unico, raro o straordinariamente comune. Viviamo in un’oasi isolata, in un cosmo
pieno di amebe o in un universo del genere Star Trek, pullulante di specie
intelligenti? Da ultimo, non abbiamo neanche una definizione operativa vera e
propria di che cosa è la vita.
Fino a poco tempo fa tali questioni, piuttosto inspiegabilmente, non erano ai primi
posti nell’ordine del giorno della scienza. Nonostante l’esplosione della ricerca
biologica nel Novecento, le domande più fondamentali sulla vita sono rimaste
stranamente ai margini. Riguardo all’origine della vita, ad esempio, l’idea che i primi
esseri primitivi fossero emersi spontaneamente in una «piccola pozza calda» (un
commento buttato là senza enfasi da Darwin in una lettera) veniva considerata dai più
come una spiegazione più o meno soddisfacente. L’ipotesi del “brodo primordiale”
pareva così plausibile, così altamente credibile, che forse si pensò che la cosa
migliore fosse non approfondire la questione.
Fino a poco tempo fa anche formulare ipotesi sulla vita nello spazio era
considerato disdicevole. L’idea degli alieni era stata resa popolare dalla fantascienza,
dalle allucinazioni della banda degli UFO e da persone come Percival Lowell e
Arthur Clarke, che esplorarono le terre di confine tra scienza e fantasia. Quando
iniziò l’esplorazione seria dello spazio, negli anni Sessanta, la scoperta che i primi
mondi esaminati, la Luna e poi Marte, apparivano quasi certamente privi di vita
generò la convinzione che la vita aliena non fosse un argomento adatto a scienziati
rispettabili.
Oggi la situazione è alquanto diversa e il tema della natura e dell’origine della vita
è uno dei problemi più scottanti della scienza. Le tante scoperte sorprendenti
realizzate dagli astronomi negli ultimi anni sembrano rendere la possibilità della vita
aliena molto più verosimile di quanto fosse anche solo vent’anni fa.
Ovunque si cerchi, si trovano sostanze chimiche “biogeniche” strettamente
associate alla vita, da elementi semplici come il carbonio a molecole organiche
complesse come gli amminoacidi. Grazie alla spettroscopia riusciamo a individuare
molecole come l’etanolo in polveri e nubi gassose remote e analizzando le meteoriti
scopriamo composti molto più complessi che potrebbero essere i precursori della vita
stessa. Se bastano le reazioni chimiche giuste perché la vita cominci e un bel pianeta
caldo perché possa proseguire, la conclusione inevitabile è che la vita è dappertutto.
L’origine della vita sulla Terra continua a essere un mistero che provoca un certo
imbarazzo. Se fosse una questione religiosa, l’analogia migliore sarebbe il Secondo
Avvento. Uno dei dogmi fondamentali della fede cristiana, il ritorno di Gesù Cristo,
oggi viene più o meno ignorato dalle chiese tradizionali, benché nei primi tempi fosse
una questione molto dibattuta.
A quanto pare, fino a poco tempo fa accadeva qualcosa di molto simile anche con
la biogenesi. La maggior parte dei libri di testo sembrava ignorare o minimizzare il
problema, un po’ come fece lo stesso Darwin, ipotizzando che i processi biochimici
spaventosamente complessi che sono necessari alla vita si fossero in qualche modo
autogenerati in quella piccola pozza calda. Basta prendere una manciata di sostanza
carbonacea appiccicosa (senza chiedersi troppo da dove arrivi), aggiungere un po’ di
fuoco e di zolfo dal vulcano più vicino, inserirvi rapidamente metano, idrogeno e
smog carbonioso e completare la ricetta colpendo il miscuglio con una scarica di
fulmini ed ecco pronto il nostro protozoo!
Questo forse si potrebbe definire come lo scenario di Frankenstein. Altre
possibilità per l’inizio della vita sulla Terra si possono riassumere nell’ipotesi delle
rocce profonde e calde, secondo la quale la vita ebbe inizio o sottoterra o intorno a
camini vulcanici sottomarini, in presenza di abbondanti sostanze nutrienti. Poi c’è
l’ipotesi che la vita provenga dallo spazio. Tutte hanno i loro appassionati, tutte
presentano argomenti indiscutibili e tutte hanno qualche grave difetto. Potrebbero
essere tutte sbagliate o, viceversa, potrebbero essere tutte corrette.
Comprendere come ha avuto inizio la vita – e quanto è probabile trovarla altrove –
sarebbe decisamente più facile se riuscissimo a decidere che cosa è. Gli esseri viventi
sono fatti di materia non vivente; non esiste un “elemento vitale” che infonde una
particolare scintilla in tutto ciò in cui si trova. Siamo fatti dello stesso materiale che
compone le rocce e il mare, il pianeta Giove e anche la stella Alfa Centauri, tutte cose
che, per quanto ne sappiamo finora, non si possono considerare vive.
Allora, che cos’è che rende vivi certi miscugli di atomi perfettamente normali e
non certi altri? Gli esseri viventi, se si adotta un punto di vista puramente
riduzionista, si possono considerare poco più che cristalli molto elaborati. Ricordo
che uno dei miei insegnanti, un uomo molto arido e noioso che viveva nell’universo
della matematica e della fisica, liquidava l’intero settore della biologia come
«chimica fatta sembrare più importante» e la chimica come «inutile elaborazione
della fisica». Gli insegnanti di biologia dicono che qualcosa è “vivo” se può spostarsi,
alimentarsi, eliminare sostanze, riprodursi e rispondere agli stimoli. Il guaio è, però,
che in realtà questa non è affatto una definizione, ma una descrizione contingente di
tutto ciò che vediamo intorno a noi e che tutti giudicano vivo.
La vita deve potersi evolvere per selezione naturale? Molte definizioni della vita lo
presumono, ma per quale ragione? Si può benissimo immaginare una biosfera in cui
il meccanismo dominante dell’evoluzione non sia la selezione naturale, ma la deriva
genetica o qualche altro processo. Che dire poi degli organismi artificiali? Oggi
sembra che a un gran numero di persone e aziende manchi solo un’offerta di
finanziamento per arrivare a creare una forma di vita sintetica.
Se la creassimo e ne guidassimo l’evoluzione, sarebbe viva? I virus sono vivi?
Sono fatti di proteine e DNA, il “materiale della vita”, eppure si possono
cristallizzare in capsule di Petri. I babbuini e i serpenti, tanto per fare un esempio,
non si possono cristallizzare. Una parte della concezione popolare della vita è l’idea
che soltanto ciò che è vivo possa pensare, eppure è chiaro che gli esseri viventi per lo
più non hanno questa capacità e che alcune cose, come i computer, che forse sono in
grado di “pensare” in modo limitato (o che per lo meno lo saranno presto),
chiaramente non sono vive.
Allora, che cos’è la vita? Una definizione molto popolare, benché piuttosto
superficiale, è: “non sappiamo esattamente che cosa sia la vita, ma possiamo sperare
di riconoscerla quando la incontreremo”. Definire che cosa intendiamo per vita
terrestre è piuttosto difficile, quindi creare una definizione onnicomprensiva della vita
che valga in qualsiasi altro luogo (nell’ipotesi che in altri luoghi esista la vita), sarà
necessariamente molto più difficile.
Gli scienziati e gli scrittori di fantascienza, dopo tutto, hanno ipotizzato forme di
vita basate su ogni sorta di processi chimici bizzarri e di processi fisici ancora più
strani. Nel loro affascinante libro sulla fine del tempo, The Five Ages of the Universe,
Fred Adams e Greg Laughlin hanno immaginato un buco nero intelligente, di nome
Bob. É assolutamente plausibile. Altrettanto plausibili sono le forme di vita
immaginate da Robert Forward, astronomo gravitazionale e romanziere, che non sono
fatte di carbonio né di silicio, bensì di materia neutronica, il materiale notoriamente
singolare derivante dal collasso delle stelle (una manciata pesa come una corazzata).
Se la vita dipende dall’organizzazione e dalla complessità (i semi possibili di una
definizione), è piuttosto facile immaginare esseri viventi che nascono nella parte
interna magnetizzata di una stella, entità assai intelligenti che usano la proprietà
quantistica dell’entanglement, o gli enormi vortici semipermanenti e in costante
evoluzione nell’atmosfera di una gigante gassosa.
Le emozionanti implicazioni di un’eventuale scoperta dell’esistenza della vita al di
là della Terra hanno alimentato lo sviluppo della nuova disciplina dell’astrobiologia,
che un buontempone ha definito come «l’unica scienza che non ha un oggetto». Gli
astro-biologi stanno studiando il postulato che se esiste la vita aliena saremo in grado
di identificarla come tale e forse sono proprio loro ad avere il massimo interesse a
ideare una definizione operativa sicura della vita.
L’idea che la vita sia qualcosa che riconosceremo quando la incontreremo forse
non è molto popolare tra questi studiosi. Nel dicembre 2006, Robert Hazen, docente
di Scienze della Terra alla George Mason University, in Virginia, ha dichiarato alla
rivista “New Scientist”: «A mio parere, è probabile che non riconosceremo la vita
quando la incontreremo» (il corsivo è mio).
In quello stesso anno, un convegno che si è tenuto negli USA per discutere la
definizione della vita ha prodotto una serie di risposte che vanno dal sublime al
ridicolo. Un esperto di molecole lipidiche ha sostenuto, mostrando una certa
ristrettezza di vedute, che dobbiamo cercare membrane lipidiche semi-permeabili
(che nel genere di vita che conosciamo avvolgono ogni cellula). Un altro esperto di
metabolismo ha affermato che la vita ebbe inizio con il primo ciclo metabolico
autosufficiente.
Altri studiosi hanno invece sostenuto la necessità di una qualche codifica
dell’RNA, mentre un geologo si è mostrato d’accordo con il mio insegnante e ha
affermato che in sostanza la vita non è altro che un cristallo autoriproducente molto
elaborato. Ecco altre due definizioni: «É viva qualsiasi popolazione di entità che
presenti tre caratteristiche: moltiplicazione, ereditarietà e variazione» (John Maynard
Smith, biologo evoluzionista), «La vita è una prevedibile proprietà collettivamente
autoorganizzante dei polimeri catalitici» (Stuart Kauffman, teorico
dell’informazione).Tra altre definizioni più vaghe troviamo «la vita è la capacità di
comunicare» e «la vita è un flusso di energia, materia e comunicazione».
Robert Hazen mette in rilievo che la nostra totale incapacità di definire la vita non
è affatto sorprendente. Dopo tutto, abbiamo gravi difficoltà a separare i vivi dai non
vivi, anche quando si tratta di noi stessi.
Quando abbia inizio la vita nell’utero è un problema estremamente controverso che
ha alimentato interminabili dibattiti etici e religiosi. Chiaramente, un ovulo appena
fecondato non è un bambino, ma altrettanto chiaramente qualsiasi differenza tra un
feto di 35 settimane e un neonato è puramente arbitraria. Infine, e questo è il punto
più chiaro, assegnare una data precisa all’inizio della vita rischia di condurci nel
territorio della “scintilla magica”.
«All’estremità opposta della vita umana», spiega Hazen, «i medici e gli avvocati
hanno bisogno di una definizione della vita per garantire un trattamento etico ai
pazienti cerebralmente morti o comunque in fase terminale di totale mancanza di
reattività». Un secolo fa, la dichiarazione di morte avveniva alla cessazione di alcuni
segni vitali: quando il cuore smetteva di battere e quando si interrompeva la
respirazione. Oggi, nell’era delle macchine cuore-polmone, delle terapie intensive e
di qualche eccezionale risveglio dal coma profondo, la morte sembra essere un
processo più che un evento. A quanto pare, la definizione migliore è questa: “sei
morto quando i medici non sono più in grado di fare qualcosa per te”.
Alla fin fine, una definizione della vita che distingua ogni concepibile essere
vivente dagli oggetti inanimati è necessariamente molto vaga. Fare affidamento
sull’esistenza di membrane cellulari, dell’autoriproduzione e così via sembra
arbitrario semplicemente perché tutti riusciamo a immaginare entità che chiunque
giudicherebbe vive, ma che non soddisfano queste definizioni. Gerald Joyce dello
Scripps Research Institute ha suggerito una semplice “definizione operativa”: «È vivo
qualsiasi sistema chimico che possa subire un’evoluzione darwiniana».
Questa definizione, che Hazen approva, sembra comprendere tutte le entità che
giudichiamo vive, ma escluderebbe le simulazioni al computer e la coscienza delle
macchine, come pure gli organismi artificiali progettati in modo da non poter essere
soggetti a un’evoluzione adattativa.
Forse in realtà non esiste una linea di separazione netta tra un “cristallo
intelligente” e un organismo che definiremmo vivente. L’ipotesi preferita da Robert
Hazen è che la vita sulla Terra sia iniziata sotto forma di un sottile rivestimento
molecolare della superficie delle rocce, un nuovo tipo di minerale complesso capace
di diffondersi e di crescere un poco come i licheni (anche se indubbiamente non si
trattava di un lichene) in base alle sostanze nutrienti a disposizione.
Se vogliamo avere qualche probabilità di trovare la vita al di là del nostro pianeta,
sarà necessario disporre di una sua definizione decente. Com’è ovvio, la vita potrebbe
far avvertire la sua presenza in modi oltremodo evidenti. Ma quando si presume che
gli omini verdi, i marziani che brandiscono armi a raggi e gli umanoidi logici con le
orecchie a punta siano, in termini galattici, una rarità, probabilmente si tocca una
questione molto più sottile.
Alla fine potremmo scoprire che, come sospetta qualcuno, la vita è fondamentale.
La vita potrebbe essere antica, molto antica, e forse i suoi precursori si formarono
non molto dopo l’inizio del tempo, molto prima che esistesse un pianeta da poter
dominare. Forse la galassia in cui viviamo non somiglia a quella di Star Trek,
popolata da migliaia di razze aliene dalle fattezze bizzarre che parlano un inglese
pomposo, però può darsi che la nostra sia una galassia di mixomiceti (organismi
primitivi simili ai funghi) in cui la vita, di solito nelle sue forme più semplici, è
incredibilmente comune.
Richard Taylor, segretario della British Interplanetary Society, ritiene che la vita
potrebbe essere così comune da essere ospitata in non meno di dieci corpi celesti
soltanto nel nostro sistema solare. Se Taylor ha ragione – e senza dubbio non è
l’unico a pensarla così – con la scoperta che probabilmente metà di tutte le stelle della
nostra galassia è accompagnata da uno o più pianeti (è una probabilità statistica
basata sul numero di pianeti extrasolari scoperti grossomodo negli ultimi dieci anni),
soltanto nella Via Lattea il numero di mondi abitabili – e abitati – ammonterebbe a
decine di miliardi.
Vent’anni fa, pochi scienziati erano disposti a ipotizzare la presenza della vita in
altre regioni del nostro sistema solare; questo atteggiamento, prima dell’ondata di
scoperte di pianeti extrasolari che iniziò nel 1995, rese molto popolare l’ipotesi della
nostra probabile solitudine nel cosmo. Oggi è opinione diffusa che esistano diversi
candidati “locali”, e non solo Marte, a cui da tempo si attribuisce la probabilità più
alta di essere la seconda oasi di vita nel sistema solare. É plausibile che almeno una
luna di Giove, un paio delle lune di Saturno e forse una classe completamente nuova
di oggetti molto al di là del gelido Plutone ospitino per lo meno qualche forma di vita
microbica.
È possibile che i precursori della vita, come i rivestimenti delle rocce di Hazen,
siano comuni negli ambienti in cui sono possibili i processi chimici adeguati: non
sulla superficie della Luna, probabilmente, ma forse su Titano, il satellite più grande
e non più tanto enigmatico di Saturno, dove sporadici impatti di comete e forse
ricorrenti cambiamenti climatici concedono brevi periodi di riscaldamento in cui
potrebbero avere inizio questi processi chimici “non proprio della vita e non proprio
simili a quelli noti”.
Trovare tracce di precursori della vita fossilizzati o ancora esistenti in un posto
come Titano sarebbe interessante quasi come scoprire la vita stessa, poiché
stabilirebbe un nuovo confine – forse i limiti del non vivente. Sulla superficie di
Titano si trovano tutti gli “ingredienti” (ragionando in termini della piccola pozza
calda) necessari alla vita – una gran varietà di composti di carbonio appiccicosi e
acqua (anche se ghiacciata) – ed è geologicamente attivo, con materiali vari che
circolano da sotto la crosta fino alla superficie e all’atmosfera e poi ricadono al suolo
sotto forma di precipitazioni, proprio come sulla Terra. Per di più, anche se la
superficie di Titano è piuttosto fredda, il sottosuolo potrebbe essere completamente
diverso.
Non è impossibile che nell’arco della nostra vita venga scoperta una prova
conclusiva della presenza della vita in qualche regione del sistema solare. Il luogo più
probabile è Marte, anche se è possibile che salti fuori qualcosa su Europa, una luna di
Giove che si pensa possa ospitare un oceano di acqua salmastra al di sotto della
superficie ghiacciata, oppure su Enceladus, un altro satellite di Saturno, in cui si è
scoperta la presenza di acqua liquida molto vicino alla superficie (la sonda spaziale
Cassini ha fotografato spettacolari geyser in eruzione su questa minuscola luna, che
ha grossomodo la superficie della Francia).
Marte continua a essere il luogo in cui abbiamo maggiori probabilità di scoprire
prove di vita aliena nell’immediato futuro. Com’è ovvio, nessuno si aspetta di trovare
omini verdi o i leggendari costruttori di canali, ma alcune scoperte recenti effettuate
sul pianeta rosso suggeriscono che potrebbe essere un luogo più predisposto alla vita,
anche oggi, di quanto si pensasse quando vi arrivarono le prime sonde spaziali, negli
anni Sessanta.
Alla fine degli anni Novanta, una sonda spaziale chiamata Mars Global Surveyor
(MGS), che ora purtroppo non esiste più, trasmise immagini di pareti di crateri che
mostravano “gole” e “nicchie” lunghe qualche centinaio di metri e larghe qualche
decina di metri, che secondo l’équipe che analizzava le immagini inviate dalla sonda
potevano essere state prodotte soltanto dall’acqua corrente. Nel corso degli anni si
sono scoperte altre gole, oltre a migliaia di strane strisce scure, su tutta la superficie,
che secondo alcuni possono essere state generate soltanto dall’acqua corrente e non
molto tempo fa.
Poi, nel dicembre 2006, “Science” ha pubblicato un articolo che, utilizzando le
fotografie scattate dall’MGS, rivela come sono cambiate le pareti dei crateri a
distanza di qualche anno
9
. Le immagini mostrano che tra le rocce sono spuntate
nuove gole e gli autori suggeriscono che la causa che produce queste caratteristiche,
quale che sia, è in azione anche ora. I giornali hanno pubblicato titoli come Su Marte
scorre acqua e persino La NASA ha trovato la vita su Marte?, rispettando una nota
regola giornalistica: ogni qual volta un titolo di giornale pone una domanda, la
risposta si dimostra invariabilmente negativa.
Va detto a questo punto che la presenza di alcune gole non significa che Marte sia
abitato, neanche da microbi resistenti. Forse troppi scienziati e giornalisti si sono
precipitati a considerarlo pieno di vita sulla base di prove che continuano a essere
piuttosto inconsistenti. Personalmente, mi sento in sintonia con la concezione del
geologo australiano Nick Hoffman, in particolare con la sua ipotesi di “Marte
9
M.C. Malin, K.S. Edgett, L.V. Posiolova, S.M. McColley ed E.Z. Noe Dobrea, Present Day Impact Cratering Rate
and Contemporary Gully Actìvity on Mars, in “Science”, CCCXIV, 2006, pp. 1573-1577.
bianco”, in base alla quale molte delle caratteristiche che si osservano sulla superficie
del pianeta non sono state prodotte dall’acqua, ma da anidride carbonica allo stato
liquido, ora o in un passato remoto. Secondo Hoffman, «corriamo il rischio di
considerare questo pianeta con eccessivo ottimismo».
L’ipotesi che sulla superficie di Marte o poco più sotto esistano, o siano esistite in
passato, condizioni capaci, all’occorrenza, di mantenere in vita alcuni dei
microorganismi più resistenti che vivono oggi sulla Terra è suffragata, al massimo, da
qualche prova indiziaria. Ma nonostante il lavoro di altissima qualità che svolgono, è
molto improbabile che una delle attuali generazioni di sonde spaziali robotiche in
orbita o sulla superficie di Marte trovi prove concrete di vita. A tal fine,
probabilmente sarà necessario raccogliere un po’ di materiale marziano e studiarlo
qui sulla Terra o in situ, sotto lo sguardo attento di occhi umani.
In realtà, può darsi che per questo studio non sia affatto necessario andare su
Marte. Marte (e la Terra) sono costantemente bombardati da meteoriti, alcune di
dimensioni notevoli, capaci di produrre crateri d’impatto e di lanciare nello spazio
grandi quantità di materiale marziano o terrestre alla velocità di fuga.
Un decennio fa ci fu un gran trambusto quando gli scienziati dichiararono che una
meteorite (chiamata ALH 84001) scoperta sulle colline Alien, in Antartide, non solo
proveniva da Marte, ma conteneva curiose strutture tubulari che alcuni interpretavano
come batteri fossili. Da allora, il giudizio su ALH 84001 è cambiato diverse volte;
oggi l’opinione preponderante sembra affermare che quelle strutture non siano
necessariamente indicative della vita, ma senza dubbio il pendolo oscillerà dalla parte
opposta ancora una volta.
Che cosa se ne può ricavare? In primo luogo, se riusciremo a dimostrare che la vita
è presente, o è stata presente (le strutture di ALH 84001, qualunque cosa siano, si
sono “fossilizzate” molte centinaia di milioni di anni fa), su almeno un altro corpo
celeste del sistema solare, dovremmo scegliere tra due conclusioni possibili. La prima
è interessante, ma non provocherebbe un cambiamento di paradigma; la seconda ha
entrambe le caratteristiche. Il fatto è che forse non sapremo mai quale delle due
scegliere.
La prima conclusione sarebbe che la vita nacque in una regione del sistema solare
e poi, usando le comete come sistema di trasporto interplanetario, emigrò su altri
corpi. Forse, come ha ipotizzato Paul Davies, un famoso fisico inglese che lavora in
Australia, la genesi originaria si è avuta su Marte e solo in seguito la vita è emigrata
sulla Terra.
Questa possibilità è confortata da alcune prove indirette. Marte, essendo più
piccolo, fu meno sottoposto all’infernale bombardamento iniziale che butterò i pianeti
e le lune del sistema solare (Marte aveva una gravità più bassa ed era, banalmente, un
bersaglio più piccolo). In quella fase iniziale, la vita avrebbe avuto maggiori
probabilità di prendere piede e sopravvivere su Marte e non sulla Terra, che era
relativamente voluminosa. Inoltre è possibile che, con un’atmosfera più rarefatta e
una quantità minore di radiazione solare, l’ambiente marziano di quattro miliardi di
anni fa fosse più ospitale di quello terrestre. Se fosse vero, saremmo tutti marziani,
come fa notare Davies. La guerra dei mondi sarebbe stata vinta quattro eoni fa.
Forse, al contrario, la vita iniziò sulla Terra e poi si diffuse su Marte. Oppure ebbe
origine sulla Terra o su Marte e da lì si propagò nel sistema solare esterno. Se
trovassimo segni di vita sulla superficie o nel sottosuolo di Europa, Enceladus o
Titano, si può pensare che si tratterebbe di organismi marziani o terrestri. È anche
possibile che la vita sia nata su Titano, poniamo, e poi sia emigrata sulla Terra (anche
se forse è improbabile, date le distanze implicate e le basse temperature di Titano). Lo
sapremo soltanto se riusciremo a scoprire uno di questi esseri alieni e ad analizzarne
il DNA. Se trovassimo una forma di vita marziana e verificassimo che è imparentata
con la vita terrestre, si tratterebbe di una scoperta affascinante, che però non potrebbe
rivelare che cos’è la vita, come è nata e quanto è comune nell’universo. Vorrebbe dire
semplicemente che il sistema solare è pieno di nostri cugini.
Immaginiamo invece di trovare la vita su Marte e di scoprire non solo che il suo
materiale genetico non ha la minima relazione con quello terrestre, ma anche che la
vita marziana non utilizza affatto il DNA, bensì una sostanza chimica completamente
diversa. In questo caso, saremmo obbligati a concludere che nel sistema solare la vita
è emersa, in maniera indipendente, almeno due volte.
Ne discenderebbe che, poiché il primo posto in cui siamo andati a cercarla, il più
vicino habitat possibile per la vita, ha ospitato una biogenesi indipendente e poiché
inoltre questo pianeta è fondamentalmente diverso dal nostro, è probabile che
nell’universo la vita sia non soltanto comune, ma onnipresente.
Rimane, però, una terza possibilità, ossìa che la vita sia comparsa sulla Terra non
in conseguenza di una sorta di contaminazione incrociata con un altro pianeta vicino
(o viceversa), bensì arrivando nel sistema solare da qualche altro posto.
L’idea di panspermia fu proposta per la prima volta dal filosofo greco Anassagora;
da allora, benché scartata per molto tempo in quanto inverosimile, non è mai finita
nella condizione di totale mancanza di rispettabilità scientifica. La panspermia
afferma semplicemente che la vita è diffusa in ogni regione dello spazio sotto forma
di “semi” o “spore” che si propagano in tutto l’universo.
La litopanspermia interplanetaria, una versione debole dell’ipotesi, considera
possibile la situazione delineata poc’anzi: la vita potrebbe essere nata, una o più
volte, su un certo pianeta del sistema solare per poi diffondersi su altri corpi
dell’impero del Sole trasportata da rocce spaziali (o anche da sonde spaziali con cui
l’umanità, in tempi molto recenti, potrebbe aver scatenato inconsapevolmente la
panspermia in tutto il vicinato). Una versione interstellare più forte ipotizza che la
vita possa diffondersi tra due sistemi stellari usando essenzialmente gli stessi mezzi
di trasporto, frammenti di rocce strappate alla superficie di un pianeta a causa
dell’impatto di una meteora o di una cometa. Una varietà più profonda di panspermia
afferma che la vita, o i suoi precursori, permeano lo spazio, forse nella polvere
cosmica, oppure avviluppati negli sciami di corpi ghiacciati che probabilmente
circondano ogni stella e sono disseminati tra l’una e l’altra. La versione più forte di
tutte ipotizza che la vita in realtà sia una proprietà fondamentale dell’universo e
debba le sue origini a processi ed eventi che ebbero luogo durante, o appena dopo, lo
stesso Big Bang. Secondo questa congettura, la “vita” è fondamentale proprio come,
ad esempio, l’interazione nucleare forte o la costante gravitazionale.
Prima di ordinare le ipotesi in base alla loro probabilità di essere corrette,
consideriamone le implicazioni. Innanzitutto, l’ipotesi della panspermia in realtà non
spiega come né dove è nata la vita, ma spinge soltanto la data della biogenesi indietro
fino a prima dell’inizio della vita sulla Terra. E non si pronuncia sul fatto che la vita
sia emersa una sola volta all’inizio dell’universo, oppure molte volte in regioni
distinte.
Una delle varianti dell’ipotesi della panspermia sostiene che da qualche parte nello
spazio, qualche forma di vita intelligente sta deliberatamente inseminando il cosmo
sparando enormi quantità di DNA nello spazio. Neanche questo risolve il problema
della biogenesi, e sembra piuttosto assurdo, ciò nonostante è stato preso sul serio da
alcuni scienziati importanti, in particolare da Francis Crick, co-scopritore della
struttura elicoidale del DNA.
A prima vista, la panspermia sembra un’inutile complicazione di un problema di
per sé complicatevi sono, però, non pochi argomenti validi a suo favore, che sono
difficili da confutare completamente. Forse la prova più “convincente” è il tempo
estremamente breve – per alcuni, sospettosamente breve – che impiegò la vita per
svilupparsi sulla Terra dopo la sua formazione. In Groenlandia sono state trovate
rocce antichissime, risalenti a circa 3850 milioni di anni fa, che contengono
formazioni ferrose a bande che si pensa siano opera di processi di fotosintesi
clorofilliana.
Un risultato meno controverso (poiché non è impossibile che questi depositi ferrosi
non abbiano un’origine biologica), è la scoperta di stromatoliti, resti fossili di colonie
batteriche marine – di cui oggi si possono osservare esempi viventi nell’Australia
occidentale – che risalgono a 3,5 miliardi di anni fa. Il fatto è che la Terra ha circa
4,55 miliardi di anni e si ritiene che per le prime centinaia di milioni di anni sia stata
sottoposta al bombardamento da parte di detriti del sistema solare milioni di volte più
frequente e violento di quello attuale.
A intervalli di qualche decina di milioni di anni, la Terra veniva colpita da rocce di
dimensioni tali da sterilizzarla completamente. Si ritiene che la Luna abbia avuto
origine dal raffreddamento di un’enorme palla di magma liquido che venne lanciata
nello spazio in seguito all’impatto di un oggetto grande quanto Marte.
Il punto fondamentale è che ogni forma di vita presente oggi sulla Terra deve
discendere da un organismo che venne alla luce dopo l’ultimo caso di sterilizzazione
(è del tutto possibile che in realtà la biogenesi sia avvenuta diverse volte, dato che in
questo periodo, l’Adeano, che prende appropriatamente il nome dall’Ade, tutte le
stirpi furono cancellate dai violenti impatti e in questo caso i nostri fossili più antichi
in effetti potrebbero essere quelli di forme di vita aliene). Per lo sviluppo della vita,
quindi, non resterebbe molto tempo, al massimo qualche centinaio, o forse decina, di
milioni di anni. Per alcuni, non è plausibile. L’universo nella sua totalità è stato
“favorevole alla vita”, in termini della disponibilità delle sostanze chimiche
indispensabili, per un intervallo di tempo molto più lungo. Forse è staticamente più
probabile, secondo i sostenitori della panspermia, che la vita “originaria” sia emersa
nel corso di questo periodo molto più lungo e non durante l’intervallo piuttosto
limitato consentito dalla Terra.
Vi è un altro dato importante, che si può considerare tanto a favore quanto contro
la panspermia: la scoperta che la vita sulla Terra può svilupparsi rigogliosamente in
una varietà di ambienti molto più ampia di quanto si pensasse un tempo. A scuola ci
hanno insegnato che la vita è quasi impossibile a temperature superiori a circa 6o°.
Oltre questo limite, le proteine si denaturano e il DNA va a pezzi. Oggi sappiamo
che alcune specie di batteri non solo sopravvivono, ma prosperano a temperature
superiori al punto di ebollizione dell’acqua, raggruppandosi attorno a bocche
vulcaniche che si trovano sul fondo dell’Atlantico e del Pacifico, note come fumarole
nere. Ovunque rivolgiamo lo sguardo troviamo la vita: sotto i ghiacci antartici e
(forse il punto più importante è questo) a molti chilometri sottoterra.
Alcune scoperte sembrerebbero dimostrare (anche se vi è ancora dissenso nella
comunità scientifica) che alcuni minuscoli organismi, gli ipotetici nanobi, sono in
grado di sopravvivere a 10-20 chilometri sottoterra a temperature e pressioni davvero
estreme. Un risultato forse più pertinente è la scoperta di spore vitali in granuli
minerali che risalgono a centinaia di milioni di anni fa. La vita può tollerare non solo
temperature elevate, ma anche livelli di ph estremi, come attesta la scoperta di
microorganismi che crescono vigorosamente in sorgenti termali da cui sgorga
essenzialmente acido solforico.
La vita, inoltre, può far fronte a condizioni di estremo freddo. Al di sotto delle
lastre di ghiaccio polare si è trovato un batterio chiamato Colwellia che vive a
temperature di −40° e in laboratorio questi organismi si sono dimostrati capaci di
sopravvivere alle temperature dell’azoto liquido (−196°), una scoperta che su “New
Scientist”, all’inizio del 2007, Dirk Schulze-Makuch, un astrobiologo della
Washington State University, ha definito «sbalorditiva». Fino a poco tempo fa, si
riteneva che il limite inferiore per la vita fosse all’incirca 30° e la scoperta di
microorganismi psicrofili, che amano il freddo, è stata una vera sorpresa. Tanto per
cominciare, dimostra di quali complicati e impressionanti meccanismi siano dotati
questi organismi per impedire all’acqua contenuta nelle loro cellule di ghiacciare.
Aumentando la concentrazione di sale, il punto di congelamento dell’acqua scende a
−50°. Certe proteine gelatinose, chiamate esopolimeri, possono impedire la
formazione dei cristalli di ghiaccio che frantumano le cellule. Resta comunque un
mistero come Colwellia, immersa nell’azoto liquido, possa non solo sopravvivere, ma
a quanto pare anche metabolizzare.
Il fatto che la vita possa sopravvivere a temperature così basse in realtà amplia la
gamma degli habitat possibili per la vita nell’universo molto più della scoperta di
organismi che vivono a temperature elevate. Dopo tutto, gran parte dell’universo è
estremamente fredda, non rovente. Alcuni dei luoghi che hanno maggiori probabilità
di ospitare la vita nel sistema solare sono i grandi satelliti dei pianeti esterni, dove le
temperature sono davvero molto basse.
Se i microbi riescono a vivere a −40°, intere regioni del sistema solare, compresi
gli innumerevoli ed enormi sciami di oggetti ghiacciati nella Fascia di Kuiper, al di là
di Plutone, appaiono d’un tratto molto più ospitali (si ritiene che all’interno questi
oggetti possano essere caldi a causa del calore prodotto dal decadimento radioattivo,
anche se in superficie hanno una temperatura di −200° o meno). Dimenticate i dieci
possibili rifugi della vita di Richard Taylor; forse nel sistema solare esistono
centinaia o migliaia di luoghi in cui i microbi potrebbero riuscire a campare.
La scoperta che la vita è più vigorosa e adattabile si potrebbe interpretare come una
prova contro la panspermia, poiché suggerisce che la gamma dei luoghi terrestri in
cui può essere nata la vita potrebbe essere molto più ampia di quanto pensassimo.
Può darsi, ad esempio, che l’assunto dell’inabitabilità della Terra durante le prime
centinaia di milioni di anni sia da rivedere; se i batteri possono sopravvivere a 20
chilometri sottoterra, forse la vita potè resistere agli attacchi più violenti del periodo
Adeano. L’esistenza degli estremofìli confonde notevolmente le acque anche quando
si considera quale sia l’habitat da considerare “normale” per la vita sulla Terra; sta in
superficie, negli oceani e nell’aria, come pensavano tutti (compreso Darwin), oppure
esiste una biosfera enormemente più grande nascosta sottoterra, nelle rocce, sepolta
nei sedimenti, sotto il ghiaccio o negli strati superiori dell’atmosfera? La vita si è
evoluta in superficie ed è emigrata verso il basso, o si è evoluta sottoterra e poi è
salita quando il cielo si è rasserenato? È possibile che si sia evoluta in cielo? Forse
non lo sapremo mai.
Ma gli estremofili, oltre a suggerire che forse agli inizi la vita ebbe minori
difficoltà a prendere piede sulla Terra, indicano anche la possibilità che la vita – i
microbi e le spore – sia abbastanza vigorosa da sopravvivere ai rigori dello spazio
interplanetario e anche interstellare, come suggerisce l’ipotesi della panspermia. Il
freddo dello spazio non rappresenta un ostacolo se un microbo che si è evoluto nel
mite clima terrestre può continuare a vivere a 200° sottozero.
Sono tutte prove indiziarie a favore della panspermia, comunque (come lo è
presumere che poiché alcuni microbi potrebbero vivere su Marte, allora la vita
microbica per tale motivo deve essersi evoluta in quel pianeta). Abbiamo qualche
ragione per credere che la vita sia arrivata sulla Terra?
I paladini moderni della panspermia sono stati lo scomparso Sir Fred Hoyle e il suo
collega Chandra Wickramasinghe, oggi all’Università di Cardiff. Oltre a essere
scettici nei riguardi del Big Bang, Hoyle e Wickramasinghe hanno affermato non solo
che la Terra miliardi di anni fa è stata inseminata da forme di vita provenienti dallo
spazio, ma anche che oggi sul nostro pianeta continuano a piovere spore attive.
Secondo i due fisici, questo fenomeno potrebbe spiegare le epidemie spesso
misteriose che affliggono l’umanità. Sulla Terra cadono ogni anno dallo spazio circa
40.000 tonnellate di materiale carbonioso e Hoyle sosteneva che una tonnellata
all’incirca è composta da veri e propri batteri o spore batteriche. Nel 2003, all’apice
dell’epidemia di SARS in Asia, che uccise molte centinaia di persone,
Wickramasinghe scrisse alla rivista medica “The Lancet” sostenendo che il virus
responsabile poteva avere origini aliene.
Questa credenza – perché di una credenza si tratta e per di più marginale – nasce
dalla scoperta che in un certo numero di oggetti cosmici (all’apparenza) molto poco
promettenti, in particolare nelle comete, si trovano grandi quantità e varietà di
composti organici (contenenti carbonio) complessi. Gli astronomi, grazie alla
spettroscopia, hanno individuato vari tipi di molecole organiche nello spazio, sospese
in nubi di gas o protette da grumi di particelle di polvere: la gamma va da composti
semplici come il metano, l’acido cianidrico e gli alcoli, compreso l’alcol etilico, a
molecole più complesse, come gli amminoacidi, di cui se ne sono trovati più di 70
nelle meteoriti.
In un esperimento effettuato nel 2001, la NASA ha usato una sorta di proiettile ad
alta velocità per cercare di riprodurre l’effetto di una cometa ricca di amminoacidi (i
componenti elementari delle proteine) che cade sulla Terra a una velocità di migliaia
di chilometri all’ora. Si è scoperto che l’impatto, invece di spezzettare gli
amminoacidi, come si presumeva, in realtà li spinge a unirsi formando catene
peptidiche, composti polimerici che hanno un livello di complessità immediatamente
inferiore a quello delle proteine.
In effetti, troviamo composti aromatici azotati quasi ovunque nello spazio: nelle
comete, nelle nubi di polvere interstellare e nell’atmosfera dei pianeti esterni. Questi
composti – molecole contenenti carbonio che hanno una struttura ad anello – sono, in
generale, gli elementi costitutivi della vita, poiché formano la base di composti
biologici complessi come le proteine e gli acidi nucleici.
In un articolo pubblicato su “Science” nel febbraio 2004, la professoressa Sandra
Pizzarello e la sua équipe dell’Arizona State University sostengono che la chiralità –
la tendenza delle molecole a essere levogire o destrogire – delle proteine e degli
zuccheri nelle forme di vita terrestri potrebbe essere collegata al materiale meteoritico
che ha colpito il nostro pianeta per miliardi di anni
10
.
Le condriti carbonacee, un tipo di meteoriti, contengono i composti carboniosi
alieni più complessi che si conoscano, tra cui amminoacidi e zuccheri. Sandra
Pizzarello ha scoperto che in esperimenti in cui la sintesi degli zuccheri veniva
realizzata in laboratorio in condizioni giudicate simili a quelle della Terra
primordiale, una pioggia costante di sostanze chimiche con la chiralità giusta (in
questo caso, levogire) faceva invertire la chiralità agli zuccheri “indigeni”. Ciò non
significa che Sandra Pizzarello abbia dimostrato che la vita è arrivata dalle meteoriti,
piuttosto che è quanto meno possibile che l’arrivo di meteoriti abbia influenzato in
misura profonda l’evoluzione della vita, quale che sia il modo in cui ebbe inizio sul
nostro pianeta.
Sappiamo che queste molecole organiche sono presenti nell’universo da
moltissimo tempo – senza dubbio da prima che nascesse la Terra. Uno dei candidati
principali al titolo di “oggetto più antico della Terra” è una meteorite che si è
schiantata in modo piuttosto spettacolare e oltremodo visibile sulla superficie
ghiacciata del lago Tagish, in Canada, nel 2.000. I dettagli dell’analisi della meteorite
del lago Tagish pubblicati su “Science” nel 2006 hanno rivelato che i granuli di cui è
composta sono antecedenti persino alla formazione del Sole
11
. In base a un primo
tentativo di datazione, le sferette cave di carbonio, di un diametro inferiore a 250
millesimi di millimetri, trovate nei frammenti della meteorite avrebbero miliardi di
anni e sarebbero persino più antiche della nostra stella, che ha 4,6 miliardi di anni. In
altre parole, è possibile che all’interno di questi frammenti di roccia si trovino
particelle antiche quanto l’universo stesso, contenenti composti complessi, compresi
gli amminoacidi, interfogliati con granuli di minerali argillosi.
I minerali argillosi, silicati con una struttura a strati, sono (si ipotizza) possibili
“uteri” per la formazione di un qualche genere di entità prebiotica, forse complesse
proteine autoriproducenti, oppure precursori degli acidi nucleici. Commentando
questo risultato, uno degli investigatori ha dichiarato: «Questi dati rivelano quali tipi
10
S. Pizzarello e A.L.Weber, Prebiotic Amino Acids as Asymmetric Catalysts, in “Science”, CCCIII, 2004, p. 1151
11
K. Nakamura-Messenger, S. Messenger, L.P. Keller, S.J. Clemett e M.E. Zolensky, Organic Globules in the Tagish
Lake Meteorite: Remnants o/the Protosolar Disk, in “Science”, CCCXIV, 2006, p. 5804.
di sostanze chimiche sono presenti nello spazio interstellare. È possibile che siano
state i semi originari che diedero inizio alla vita».
L’idea che la vita, o quanto meno i precursori chimici della vita, possano essere
arrivati sulla Terra trasportati da materiale cometario non viene più considerata
assurda. Le comete, corpi celesti profondamente misteriosi, fanno parte di una classe
di oggetti ghiacciati onnipresenti che forse circondano ogni sistema stellare e si
formano ai margini delle nubi interstellari. Le comete e gli altri oggetti simili della
Fascia di Kuiper potrebbero essere gli ambasciatori di un tempo antecedente alla
formazione del sistema solare. La scoperta di sostanze chimiche organiche complesse
nei frammenti di meteoriti suggerisce con forza che almeno alcuni di quei processi
che si presumeva si fossero realizzati nella piccola pozza calda di Darwin potrebbero
aver avuto luogo nello spazio profondo, in un tempo in cui l’universo era ancora
giovane.
Questo è ciò che sappiamo; da qui in avanti sono solo congetture. Quanto alle
“prove” di forme di vita più complesse su pianeti distanti, le discussioni sugli UFO e
sugli esseri che li guidano appartengono a un altro filone. Ma si possono fare
congetture su scenari bizzarri e meravigliosi proprio come i dischi volanti. Se
davvero le origini della vita risalissero alle prime ere della storia dell’universo, ne
discenderebbe che la vita può essere una proprietà intrinseca del cosmo?
Le frange più pazze della comunità della panspermia hanno ipotizzato che la vita
stessa possa far parte del “principio organizzativo” dell’universo, avendo avuto
origine proprio nel Big Bang. Si può considerarla come un’estensione del concetto di
“Gaia” – sostenuto dal biologo inglese James Lovelock – che afferma che sulla Terra i
processi organici e inorganici si intrecciano in una serie di meccanismi di feedback.
In altre parole, la Terra è come è a causa della vita e, viceversa, la vita ha le
caratteristiche che ha perché è sulla Terra.
In un articolo pubblicato su “Nature” nel 2004, William Dietrich, dell’Università
della California a Berkeley, considera quale sarebbe l’aspetto della Terra se non
avesse mai ospitato la vita
12
. Dietrich, dopo aver osservato che «si è scritto molto
poco sull’evoluzione della Terra in assenza di vita», ipotizza che la vita sulla Terra
abbia potuto avere effetti molto più profondi del semplice cambiamento della
composizione dell’atmosfera (l’immissione di ossigeno mediante la fotosintesi) e
della formazione delle rocce fossilifere:
Sulla Terra, i processi descritti dalla tettonica a zolle dipendono da una zona a
bassa viscosità del mantello superiore su cui le zolle possono scivolare e si è
ipotizzato che questa zona emerga dalle iniezioni di acqua in corrispondenza
delle zone di subduzione. […] È possibile che la comparsa della vita sulla Terra
abbia impedito lo sviluppo di condizioni atmosferiche favorevoli all’erosione del
vento solare, mantenendo “umido” il pianeta e consentendo la dinamica della
tettonica a zolle? La dinamica della Terra è una conseguenza della vita sulla
Terra?
12
W.E. Dietrich e J.T. Perron, The Search for a Topographic Signature of Life, in “Nature”, CDXXXIX, 2006, pp. 411-
417.
Se l’ipotesi fosse corretta, sul nostro pianeta si sarebbe realizzato un evento
straordinario. La vita potrebbe aver salvato la Terra dal trasformarsi in un’altra
Venere: accumulando gigatonnellate di anidride carbonica nelle loro conchiglie,
innumerevoli milioni di miliardi di minuscole creature marine possono aver impedito,
nel corso degli eoni, un massiccio aumento di CO 2 nell’atmosfera e il conseguente,
incontrollabile, effetto serra, che sembrano essere gli eventi accaduti su Venere. Si
potrebbe davvero considerare la Terra, senza tutte le implicazioni spirituali forse
inopportune generate dal concetto originario di Gaia, un pianeta “vivo”, un sistema
biologico, legato agli organismi che vivono sulla sua superficie e al suo interno dalla
stessa relazione che lega la conchiglia alla chiocciola.
È possibile che certe proprietà dell’universo siano influenzate almeno in parte dalla
presenza della vita? Certamente a un livello fondamentale il principio antropico
afferma che l’universo presenta qualche analogia con la favola di Riccioli d’oro,
poiché tutto è finemente regolato per essere perfetto per la vita. Le costanti fisiche, la
natura della materia, le particelle e così via sembrano essere predisposte in modo da
consentire la vita e a quanto pare – il punto importante è questo – se i valori dei
parametri si discostassero di poco da quelli osservati l’universo sarebbe
indubbiamente privo di vita.
Secondo una teoria proposta dal fisico Lee Smolin negli anni Novanta, una delle
ipotesi sulle origini dell’universo – ovvero che sia emerso sotto forma di bolla
spaziotemporale in un altro universo creato da un buco nero – suggerisce che gli
universi favorevoli alla vita potrebbero essere soggetti a una forma di selezione
naturale cosmica; in breve, gli universi capaci di produrre il massimo numero di
buchi neri sarebbero i “genitori” più fecondi ed è vero che un universo capace di
produrre buchi neri (molte stelle stabili delle dimensioni giuste e di massa giusta) è
anche un universo in cui le costanti fisiche permettono l’esistenza del “nostro” tipo di
vita.
Questa teoria suggerisce che la vita, se non una proprietà intrinseca dell’universo, è
quanto meno fondamentale per comprendere perché il mondo intorno a noi è come è.
Un aspetto entusiasmante è che in gran parte è verificabile. Possiamo cercare prove
della presenza di forme di vita su altri pianeti e nei detriti che colpiscono la Terra. Se
si arrivasse a dimostrare che l’universo è vivo, non solo sarebbe una scoperta
eccezionale dal punto di vista filosofico, ma si potrebbe anche allentare un poco la
pressione sull’umanità. Forse non scopriremmo quanto è diffusa la vita intelligente,
ma almeno sapremmo che, se inavvertitamente dovessimo causare noi stessi la nostra
fine, ci sarebbero luoghi in cui il grande progetto della vita potrebbe proseguire.
Forse la piccola pozza calda in realtà era un grande mare.
Capitolo 7
Sono la stessa persona che ero un minuto fa?
Che domanda stupida, certo che sono la stessa persona! Ho la stessa pelle, le stesse
ossa, la stessa carne. Il punto più importante, dato che com’è ovvio sto parlando della
niente, l’essenza di noi stessi, è che ho lo stesso cervello: (più o meno) gli stessi
neuroni, le stesse sinapsi, gli stessi vasi sanguigni e tessuti connettivi dentro al cranio.
Un’altra considerazione, più profonda, è che ho gli stessi ricordi. Inoltre, a meno che
non mi accada qualcosa di preoccupante, come ricevere un colpo violento alla testa,
ho l’impressione di un flusso di coscienza continuo.
Più ci rifletto, tuttavia, più mi rendo conto che non sono la stessa persona che ero
anche solo un secondo fa. Forse sono composto dagli stessi atomi, ma soltanto
approssimativamente. In un solo minuto, ad esempio, metabolizzo all’incirca 4,5
grammi di ossigeno – vale a dire circa un milione di miliardi di atomi ogni 60
secondi. Diverse migliaia di miliardi di molecole di anidride carbonica lasciano i miei
polmoni e altrettante saranno assimilate dai prodotti della digestione. In breve, la
chimica cellulare che mi fa funzionare è una giostra continua di scomposizione e di
sintesi. Al livello molecolare e atomico, non sono esattamente la stessa persona che
ero un minuto fa.
Quarant’anni fa potevo vantare diritti su circa il 10 per cento della mia massa
attuale e da allora grossomodo ogni atomo del mio corpo è stato sostituito. Fra altri
quarant’anni, se vivrò tanto a lungo, sarò altrettanto diverso da come sono oggi. E
non è soltanto la struttura materiale del mio corpo che cambia, ogni anno, ogni ora,
ogni secondo. Sono sempre in movimento, in modo costante e inarrestabile. Anche
rimanendo quanto più possibile immobile, ruoto comunque a più di 700 chilometri
all’ora intorno all’asse terrestre e a più di 100.000 intorno a quello del Sole. Ogni
microsecondo occupo un pezzetto di spaziotempo diverso. La mia composizione e la
mia posizione cambiano di continuo. Se ha senso definirmi, sono un insieme
imprecisato di carne e ossa che va in giro sostenendo di essere me.
Il concetto di sé, insieme alla continuità dell’esistenza, è un ben noto problema
filosofico. Alle sue radici sta la spinosa questione della coscienza, la misteriosa
sensazione di consapevolezza di sé che non ha ancora trovato spiegazione. L’uso
pratico dell’identità è qualcosa a cui oggi pensiamo più di quanto si sia mai fatto in
precedenza. La nostra è un’epoca in cui i governi, per temibili “interessi di
sicurezza”, vogliono prenderci le impronte digitali, fotografarci l’iride, trasformare in
un codice a barre i nostri dati “biometrici” e inserirlo in un database contenente ogni
nostro movimento, catturato dalle telecamere a circuito chiuso e dalle reti presenti nel
cyberspazio.
In tal modo la nostra identità viene banalmente ridotta a un flusso di numeri. Con
l’avvento dell’accesso a internet ad alta velocità, milioni di persone si stanno creando
una seconda identità (e anche una terza e più) nel mondo on-line – un fenomeno
previsto infinite volte sin dalla nascita di internet, trent’anni fa, ma che si sta
realizzando soltanto adesso.
Oggi milioni di persone “vivono” in mondi elettronici come Second Life e
dedicano notevoli quantità di tempo, fatica e denaro a far finta di essere qualcun altro
e a vivere una vita artificiale. Probabilmente questa tendenza proseguirà e gli alter
ego si moltiplicheranno.
Torniamo alla realtà. Stabilire un concetto di identità è importante sotto vari
profili. I tribunali, come mai prima d’ora, riconoscono che l’imputato, pur avendo lo
stesso corpo, può non essere più la stessa persona che ha commesso il reato. La follia,
una malattia fisica o una lesione profonda possono creare una nuova persona. Questo
fenomeno è riconosciuto da molto tempo. Ma quanto più la scienza accresce la nostra
comprensione della mente (che di certo per il momento non è granché), tanto più
siamo obbligati a considerare la possibilità che la continuità dell’esistenza sia
un’invenzione.
Al giorno d’oggi, uno schizofrenico che commette un assassinio non viene
condannato a pene detentive. Fra quanto tempo un uomo accusato di un crimine che
ha commesso 40 anni prima, quand’era un ragazzo, potrà ragionevolmente sostenere
di non essere più la stessa persona ed evitare in tal modo la punizione? Definire con
precisione che cosa intendiamo per identità ha profonde conseguenze per il
trattamento riservato ai criminali e agli anziani e per come consideriamo noi stessi.
La scienza può far luce sulla questione? E stabilire che cosa intendiamo con i termini
“identità” e “sé” ha qualche attinenza con l’arduo problema della coscienza?
Esistono due punti di vista diversi sull’identità. Il primo, quello della “scienza
popolare”, presume che esista un’“essenza interiore” dell’individualità, un “ego” che
è costante nel tempo. La maggior parte di noi pensa all’identità in questo modo. Io
sono la stessa persona che ero da bambino e continuerò a essere la stessa persona fino
al giorno in cui morirò. Sì, il mio corpo cambia, ma esiste una qualche “essenza di
me” che rimane costante. Il problema però, per quanto consolante e coerente sia la
teoria dell’ego, è che non può essere vero. Non letteralmente.
L’altra prospettiva – l’idea che siamo un “gomitolo” di stati mentali che ruzzola giù
per la strada del tempo, come i cespugli secchi che rotolano nel deserto sospinti dal
vento – contraddice quasi tutto ciò che riteniamo vero di noi stessi. Non siamo ciò che
pensiamo di essere. La nostra vita è una serie di esperienze collegate, ma al centro
non c’è una singola entità che ha realmente queste esperienze. É un punto di vista
inquietante, anzi angosciante. Ne discende che in realtà non esiste un sé. É la
continuità dell’esistenza è un’illusione (anche se la coscienza di queste esperienze
non è un’illusione). Prima di poter considerare che cos’è a generare l’esperienza di
una serie infinita di “adesso”, dobbiamo seppellire la vecchia teoria dell’ego e
uccidere il fantasma nella macchina.
Il problema, se vogliamo prendere in considerazione l’esistenza di un’“anima”, è
che dobbiamo descrivere che cos’è, come nasce e come interagisce con la materia
ordinaria, cioè con le cellule del nostro cervello. Non abbiamo alcuna possibilità di
farlo né prove dell’esistenza di un tale fenomeno. Oggi la scienza rifiuta l’idea di
anima, anche sulla base del rasoio di Occam. Invece di credere che un’anima (della
cui esistenza non abbiamo prove) usa il cervello per pensare, è molto più semplice
credere che sia il cervello stesso a generare l’esperienza di questi pensieri.
Il filosofo Derek Parfit ha chiarito in modo efficace che cosa significa realmente il
concetto di sé nella scienza popolare. In Ragioni e persone, del 1986, Parfit lo
analizza mediante una serie di eleganti esperimenti mentali basati sul teletrasporto. I
teletrasportatori, come le macchine del tempo, sono congegni utili, non solo nei
romanzi di fantascienza, ma anche perché, ancor prima che ne sia mai stato inventato
e utilizzato uno, possono servire a realizzare interessanti esperimenti mentali di ogni
genere.
Il classico teletrasportatore della fantascienza può funzionare in due modi diversi.
Nel primo, l’oggetto che dev’essere teletrasportato – un essere umano, ad esempio – in
qualche modo viene trasportato in toto attraverso l’etere fino a destinazione. Queste
macchine utilizzano strutture particolari come i cunicoli spaziotemporali, capaci di
deformare e incurvare lo spazio consentendo viaggi istantanei dal punto A al punto B.
Per quanto interessanti, questi teletrasportatori non sollevano questioni filosofiche
importanti. Sono sostanzialmente autocarri, anche se molto strani e intelligenti,
poiché l’essenza di ciò che viene trasportato non viene manomessa in alcun modo nel
corso del processo, non più di quanto avvenga in un viaggio aereo.
Le questioni interessanti si presentano con il secondo tipo di macchina per il
teletrasporto, che smonta una persona e poi la ricompone esattamente come
nell’originale da qualche altra parte. Nessuno sa se sia possibile costruire una
macchina di questo tipo (in realtà, alcuni risultati sperimentali indicano che un
teletrasportatore dovrebbe essere notevolmente più semplice da costruire di una
macchina del tempo), ma la sua fattibilità non è importante per il nostro esperimento
mentale.
In un certo scenario, appena entro nella cabina del teletrasportatore il mio corpo
viene scansito con mirabile precisione.Vanno individuati il tipo e la posizione di
ognuno dei miei 7.000 trilioni di trilioni (7.000 × 10
24
) di atomi. Come si potrebbe
realizzare l’impresa non è affatto chiaro – forse con una tecnica perfezionata di
cristallografia a raggi X. La macchina ha anche bisogno di conoscere con precisione
lo stato quantico di ogni particella. Alcuni esperimenti recenti, in cui i ricercatori
sono riusciti a teletrasportare interi atomi da un punto all’altro di una stanza,
suggeriscono che se fosse possibile una macchina capace di funzionare con oggetti di
dimensioni maggiori, come una persona, con tutta probabilità sarebbe impossibile
completare la scansione (e il successivo trasporto) senza distruggere l’“originale”. Il
processo di scansione, si spera, dovrebbe essere quasi istantaneo e indolore.
Al passo successivo, le informazioni raccolte dallo scanner devono essere
trasmesse a destinazione. Anche per tale problema abbiamo qualche indizio suggerito
dagli esperimenti: forse si potrà trovare la soluzione usando una delle bestie più
strane del serraglio quantistico, il fenomeno dell’entanglement, grazie al quale le
proprietà di una particella si possono trasmettere istantaneamente a una distanza
arbitraria. Questo sembra violare ogni genere di legge, non ultimo il comandamento
“non viaggerai più velocemente della luce”, ma i fisici sostengono di aver considerato
ogni aspetto della questione. Per essere fattibile è fattibile, quanto meno nel caso di
interi atomi, come è stato dimostrato nel 2004 dal professor Rainer Blatt in Austria e
dal suo collega David Wineland negli USA, che sono riusciti a teletrasportare interi
atomi da una parte all’altra del laboratorio.
Parfit ha esaminato un certo numero di scenari possibili e tutti hanno implicazioni
inquietanti. Se il teletrasportatore funziona come si deve, dalla cabina ricevente esce
una mia copia precisa, dotata anche dei miei ricordi. L’originale è stato distrutto. La
maggior parte delle persone sarebbe convinta che la macchina ha “funzionato” – che
il “me stesso” originale è stato realmente spostato dal punto A al punto B.
Ma è quando la macchina viene messa a punto, o ha un malfunzionamento, che
cominciano a venire a galla i problemi. Poniamo che la macchina faccia due copie.
Quale delle due è “me”? Mettiamo che l’originale non venga distrutto. Chi può
vantare diritti sulla proprietà della mia “essenza”? Se ci si riflette, se ne conclude
immediatamente, come fa Parfit, che il teletrasporto è un assassinio. Queste macchine
creano semplicemente dei duplicati. Ma poi si può anche concludere, come fa Parfit,
che non ha importanza. Il nuovo me non è un impostore anche se il vecchio me è
morto. Non è affatto un paradosso, perché il vecchio me comunque viene
continuamente distrutto, nel mio cervello.
Basta con il teletrasporto, torniamo al mondo reale. Immaginiamo, ad esempio, che
io abbia un terribile incidente stradale, che mi procura una lesione alla testa, così
grave che per qualche minuto l’attività del mio cervello è quasi nulla. La fortuna,
però, è dalla mia: l’infiammazione si riduce e il chirurgo è molto bravo. Il danno
viene minimizzato. Ciò nonostante, rimango in coma profondo per diverse settimane.
Non sono sveglio e non penso. Non sogno. Le immagini della risonanza magnetica
mostrano che il mio cervello è soltanto carne. Carne viva, ma non carne pensante.
Per fortuna, a un certo punto il corpo inizia a riprendersi. I vasi sanguigni
ricrescono, le sinapsi tornano a funzionare. Dopo un mese o due, mi sveglio. Per un
po’, non sono propriamente me stesso. I miei ricordi sono frammentari e ho difficoltà
a rammentare alcuni fatti della mia vita, ma piano piano la memoria torna a essere
normale. Aiutato da amici e parenti, ricostruisco minuziosamente il mio passato,
riempiendo le lacune nel racconto della mia vita. Passato un anno sto abbastanza bene
da tornare al lavoro; dopo un altro anno, a parte qualche brutta cicatrice, sono
effettivamente tornato alla normalità.
Ora consideriamo un altro incidente. In questo caso, si tratta di un incidente reale
accaduto a un uomo in carne e ossa, di nome Phineas Gage, nel 1848. Gage lavorava
alla costruzione di una nuova ferrovia e in quel momento dirigeva la squadra che
collocava le cariche esplosive per aprire un varco in un affioramento roccioso.
Qualcosa andò per il verso sbagliato e una sbarra di metallo lunga un metro e pesante
più di sei chili gli si conficcò nel cranio e nei lobi frontali, regioni fondamentali della
materia grigia.
Tutti pensarono che fosse morto, ma qualche strana circostanza gli consentì di
sopravvivere. Di più, con il tempo si ristabilì quasi completamente. Ma qualcosa era
cambiato. Esistono descrizioni diverse e di recente qualcuno ha gettato l’ombra del
dubbio su questa storia, ma a sostenere che la personalità di Gage cambiò in modo
piuttosto spettacolare dopo l’incidente furono in tanti. La sua intelligenza e i suoi
ricordi erano in gran parte intatti. Tuttavia, secondo il medico curante e i familiari,
l’individuo misurato, gentile e gran lavoratore di un tempo iniziò all’improvviso a
finire spesso preda dell’alcol e della collera.
Da ultimo, consideriamo qualcosa dì molto più banale: il sonno. Alla fine di una
lunga giornata, prendiamo sonno – è un processo perfettamente naturale che non ha
nulla a che fare con le macchine per il teletrasporto né con orribili incidenti stradali
né con sbarre di metallo di un metro di lunghezza. Nell’arco di qualche minuto,
entriamo in un altro mondo, il regno dell’omino del sonno.
A volte sogniamo, a volte no, però non siamo coscienti, quanto meno non nel
modo in cui lo siamo durante il giorno. A meno di non essere molto fortunati, non
abbiamo alcun controllo volontario sul soggetto e sulla direzione dei nostri sogni. Il
nostro cervello, pur non essendo nello stato di profonda alterazione del coma,
nondimeno non è “se stesso” mentre dormiamo. In effetti, “noi” ci siamo spenti per
qualche ora, per scopi tuttora non completamente chiari. Quando ci svegliamo,
naturalmente abbiamo tutti i nostri ricordi, atomi e così via.
Questi esempi mettono in luce che la natura della nostra esistenza è profondamente
enigmatica: che cosa significa essere “me”? E che cosa intendo con il perdurare della
mia identità?
Le macchine per il teletrasporto devono distruggermi per fare un duplicato, ma
quel duplicato ha gli stessi ricordi dell’originale. Immaginiamo, con un colpo di
scena finale, che il teletrasportatore produca la mia copia, però esattamente nel posto
in cui ero quando sono entrato. Per giunta, il processo di distruzione-ricreazione si è
compiuto in un intervallo estremamente breve, in una frazione infinitesimale di
secondo, quindi in molto meno tempo di quello necessario per qualsiasi evento che si
realizza in un cervello integro. In realtà sono stato ucciso e ricostruito in meno tempo
di quanto impieghi un fotone per attraversare il diametro di un atomo. Me ne
accorgerei?
Phineas Gage era un uomo trasformato, ma viveva nello stesso corpo. Quando
dormiamo spegniamo parte del nostro cervello, che poi viene rimessa in moto al
mattino. Che differenza c’è con il teletrasporto? Chi è colpito dal morbo di Alzheimer
perde i ricordi. Vuol dire che perde l’essenza di se stesso? Di norma, una persona non
ricorda nulla dei primi mesi di vita. Significa che all’epoca era una persona diversa?
Per capire quanto possa essere elusiva l’identità, consideriamo il caso dei ricordi
falsi. Se esiste un’essenza dell’identità, ciò che le si avvicina di più sono i ricordi,
tuttavia esiste la possibilità che le persone, involontariamente o deliberatamente,
acquisiscano ricordi di eventi che non sono mai accaduti.
Diversi studi hanno rivelato che è estremamente facile creare falsi ricordi. In realtà,
molti nostri ricordi sono “falsi”, nel senso che non rappresentano con precisione
eventi reali che potrebbero essere confermati da testimoni. La maggior parte delle
persone ricorda momenti felici e traumi dell’infanzia che possono essere
confabulazioni generate da ricordi reali e descrizioni posteriori dei genitori.
Molti scienziati hanno mostrato come sia facile imprimere ricordi falsi e lo studio
più famoso è quello della psicologa americana Elisabeth Loftus. Nel Reconstruction
of Automobile Destruction Study, condotto nel 1974, Loftus ha mostrato che
informazioni fornite dopo l’evento possono facilmente modificare i ricordi di un
testimone.
I soggetti, tutti studenti che si erano sottoposti volontariamente all’esperimento,
dopo aver visto il filmato di un incidente stradale, dovevano scrivere un resoconto di
quel che avevano visto. In particolare, dovevano stimare la velocità delle macchine
per rispondere alla domanda: “Qual è all’incirca la velocità delle macchine nel
momento in cui [verbo] l’una con l’altra?” Il verbo mancante poteva essere uno di
questi: “si schiantano”, “si scontrano”, “urtano”, “entrano in collisione”, “entrano in
contatto”.
I ricercatori hanno constatato che quanto più “veloce” era il verbo usato per
descrivere la collisione, quanto più elevato era il valore stimato della velocità. Nel
caso in cui le macchine “si scontravano”, i soggetti in media indicavano una velocità
di 13 km/h superiore alla velocità delle macchine che entravano semplicemente “in
contatto”.
In un secondo studio i soggetti, dopo aver visto la collisione, dovevano indicare se
c’erano vetri rotti sul luogo dell’incidente. Quanto più “rapido” era il verbo usato
dagli sperimentatori per descrivere la collisione, tanto più probabile era che i soggetti
“ricordassero” la presenza di vetri rotti (in realtà, non ce n’erano). Quando veniva
usato il verbo “scontrarsi”, più di un terzo dei soggetti “ricordava” di aver visto vetri
che non c’erano.
L’importanza di questi risultati è evidente. Le conseguenze più ovvie riguardano le
prove processuali e le dichiarazioni rese da testimoni a funzionari di polizia. Oggi si
riconosce che essere testimoni oculari di un evento non è affatto una garanzia di
precisione. É altresì chiaro che il modo in cui il funzionario di polizia o l’avvocato
formula una domanda, qualunque domanda, può avere un profondo effetto su ciò che
“ricordiamo”.
Nella sindrome dei falsi ricordi, il “sé” è alterato in modo ancora più profondo
rispetto al caso in cui si ricordano male i dettagli di un incidente stradale. Chi ne
“soffre”, se questo è il termine giusto, ha un ricordo vivido, ma completamente
fasullo, di traumi subiti nell’infanzia, in particolare di abusi sessuali. Secondo
un’accusa formulata più volte, alcuni professionisti, ipnotizzatori o psicologi, quando
sospettano che il proprio paziente abbia subito una violenza, gli “imprimono”
involontariamente questi falsi ricordi, con conseguenze disastrose: a volte i pazienti
credono davvero di essere stati violentati da un genitore, le famiglie si disgregano e
qualcuno va in prigione.
Negli anni Ottanta e Novanta, finirono sulle prime pagine dei giornali
nordamericani ed europei vari processi contro interi gruppi di adulti accusati di aver
commesso violenze sessuali sui bambini a loro affidati, nel corso di riti satanici.
Nonostante la preoccupante diffusione delle violenze sui minori, le violenze rituali
non sono comuni. Ciò nondimeno, le persone coinvolte erano centinaia e molte
finirono in carcere.
Le indagini, le cause e i processi che seguirono rivelarono gli straordinari e
inquietanti sforzi compiuti da alcuni operatori sociali e psicologi per imprimere
ricordi nelle giovani menti. Il trauma delle accuse, che spesso hanno prodotto la
disgregazione delle famiglie e procedimenti giudiziari ingiusti, è stato ampiamente
documentato; quel che non è stato documentato altrettanto bene è l’effetto di
distruzione del sé per alcuni di questi bambini. Individui con ricordi felici dei genitori
e delle persone care sono stati sostituiti da individui infelici che “ricordano” eventi
orribili che non sono mai accaduti – e questi disturbi del sé non sono cessati neanche
dopo la rivelazione della falsità delle accuse. Per certi versi, si sono creati nuovi
individui dal nulla.
Meno serio è lo strano fenomeno dei rapimenti da parte di alieni. É difficile sapere
con precisione il numero delle persone convinte di essere state rapite dagli alieni,
portate a bordo delle loro astronavi e sottoposte a esperimenti medici spesso
umilianti, ma secondo alcune stime si tratta di centinaia o migliaia di persone.
Un’indagine sostiene che l’1 per cento della popolazione degli USA (3 milioni di
persone) è convinto di essere stato rapito – un dato statistico straordinario, se vero.
Non si tratta di un fenomeno esclusivamente americano, ma nell’elenco dei rapiti
prevalgono senz’altro gli americani.
A volte le persone hanno ricordi continui e persistenti di esperienze che
comprendono il rapimento da parte degli alieni. Di solito, il rapimento viene
“rivelato” per mezzo della psicoterapia o dell’ipnosi. Per molti si tratta di
un’esperienza fondamentale per capire da quali disturbi nevrotici potrebbero essere
afflitti i pazienti e i terapeuti assicurano che il ricordo di essere stati “presi” è
catartico e terapeutico.
Naturalmente, non abbiamo alcuna prova del fatto che qualche essere umano sia
mai stato rapito dagli alieni, quindi dobbiamo presumere che questi ricordi siano
falsi: o queste persone mentono, oppure questi ricordi – falsi frammenti del sé – sono
stati impressi nella loro mente da un terapeuta.
Un punto davvero interessante è che il fatto che questi ricordi non siano autentici a
quanto pare non ha importanza. I risultati presentati al convegno annuale
dell’American Association for the Advancement of Science tenutosi a Denver nel
2003 dallo psicologo di Harvard Richard McNally mostrano che le persone convinte
di essere state rapite soffrono di sintomi “reali” come schemi di sonno anomali, «che
sottolineano il potere delle credenze basate sulle emozioni».
In gran parte, i “rapiti” hanno molte caratteristiche in comune, a cominciare da
un’intera schiera di credenze “secondarie” collegate: credono nella reincarnazione,
nella proiezione astrale, nei tarocchi, nell’occulto e così via. McNally la definisce una
“ricetta comune”. Spesso sono anche soggetti ad allucinazioni e a episodi di paralisi
durante il sonno, che di solito sono il motivo per cui si rivolgono a un terapeuta. Di
norma, sono i terapeuti a suggerire il rapimento da parte degli alieni come
“spiegazione” dei loro sintomi.
Questi ricordi sono diventati reali. I veterani di guerra che hanno vissuto
esperienze traumatiche sul campo di battaglia manifestano alcune reazioni
psicologiche particolari se vedono il filmato di un combattimento. Hanno un battito
cardiaco accelerato, sudano e respirano in modo più veloce e superficiale. Le persone
che non hanno mai combattuto non hanno le stesse reazioni. Ma i “rapiti dagli alieni”
hanno quasi le stesse reazioni dei veterani del Vietnam quando ascoltano storie di
rapimenti e di sgradevoli esperimenti condotti a bordo delle astronavi.
La natura dell’identità, in particolare il perdurare dell’identità, è un problema
filosofico classico che è stato discusso abbastanza ampiamente. Ne La possibilità
dell’altruismo, il filosofo Thomas Nagel sottolinea che «l’idea di un essere umano
che persiste nel tempo è troppo complicata». E conduce ad altri dilemmi. Che
importanza dovremmo attribuire al nostro sé passato e a quello futuro? Dovremmo
trattarli come entità separate e riservare un trattamento migliore a uno dei due?
Sembrano domande strane, ma in effetti la maggior parte di noi fa proprio questa
distinzione.
Come fa notare Nagel, dovremmo avere motivo di rammaricarci del fatto che ieri
sera ci siamo comportati male alla festa dell’ufficio, non solo perché ne possono
discendere conseguenze spiacevoli oggi e in futuro, ma anche per il brutto
comportamento di ieri in sé e per sé.
La persona che eravamo ieri è diventata la persona che siamo oggi e quel
rammarico è un collegamento tra le due. In maniera analoga, dovremmo tener conto
della nostra vita futura grossomodo come considereremmo la vita di qualcun altro. Si
potrebbe dire che decidendo di iniziare a fumare, o a far uso di eroina, danneggio un
futuro “me” che non è veramente quello di oggi. La prima sigaretta non mi ucciderà,
e non lo farà la prima iniezione di eroina, ma nell’arco di vent’anni la persona che
dichiara di essere me potrebbe avere motivo di pentirsi della decisione presa da me
oggi. Diventare dipendenti dalla nicotina, quindi, più che un suicidio è un assassinio.
Queste sono considerazioni di carattere filosofico, ma che cosa può dire la scienza?
Come abbiamo visto, l’idea di un’identità unica e continua ha poco senso, se non
facendo appello all’esistenza di una specie di fantasma nella macchina, di un’anima
vecchio stile – di cui, però, non abbiamo la minima prova. Al contrario, non esiste un
“sé”, ma solo una serie di configurazioni di informazioni che si possono creare e
distruggere più e più volte. Su un numero di “Nature” del 2006, Paul Broks, uno
psicologo della Plymouth University, in Gran Bretagna, ha scritto: «Non c’è un sé da
distruggere. Ci sono solo configurazioni».
Questo fatto porta a quello che Broks definisce come una netta inversione del
modo di pensare tradizionale. «Quanti credono in un’essenza, in un’anima
improvvisamente diventano materialisti, temendo la perdita di un corpo originale [in
un teletrasportatore, ad esempio]. Ma quanti di noi non condividono queste credenze
sono preparati ad accettare la vita dopo la morte del corpo».
Anche senza il trauma di falsi ricordi indotti con l’ipnosi, anche in mancanza di
lesioni cerebrali gravi e degli stati alterati prodotti da certi narcotici, tutti avranno
avuto almeno due “sé” nella vita. Al congresso annuale dell’American Association
for the Advancement of Science tenutosi a San Francisco nel febbraio 2007, Patricia
Bauer della Duke University ha presentato risultati che sembrano indicare che gli
infanti hanno un “sé” totalmente distinto dalla loro forma adulta. La cosiddetta
“amnesia infantile” è un fenomeno sconcertante: perché la vasta maggioranza delle
persone è completamente incapace di ricordare qualunque evento avvenuto nel primo
anno di vita? Una delle spiegazioni è che gli infanti sono semplicemente incapaci di
formare ricordi. Ma Bauer ha registrato mediante sensori elettrici collegati al cranio
le reazioni di un gruppo di infanti a un insieme di suoni e immagini, dimostrando che
in realtà nel primo anno di vita i bambini formano ricordi pressappoco come fanno gli
adulti. Gli infanti esaminati erano capaci di ricordare eventi accaduti da giorni e
anche da mesi. Ma a causa dell’immaturità del loro cervello, questi ricordi non
passano nella memoria a lungo termine e svaniscono; il vecchio sé va perduto e ne
nasce uno nuovo.
La comprensione del fatto che il sé non è immutabile ha varie conseguenze
pratiche e filosofiche. Una volta liberi dalle catene dell’anima, non si è più tenuti a
dover pensare al sé come a un’entità inviolabile. La facilità con cui i ricordi possono
essere creati (da terapeuti e da avvocati) e distrutti (da una malattia o da un trauma)
dovrebbe renderci scettici nei confronti di qualsiasi descrizione di un evento
controverso quale un crimine, dove la precisione è, o dovrebbe essere, tutto.
Il nostro sé non solo muore e rinasce ogni secondo a causa dei normali processi del
nostro cervello, ma viene anche ampliato, scolpito e riplasmato dalle persone intorno
a noi e dal nostro stesso intervento. Ora che è nota la facilità con cui si possono
imprimere ricordi traumatici nella mente di un bambino, è molto più raro che le
famiglie si disgreghino a causa di accuse false e infondate di violenze rituali.
Oggi è chiaro che il nostro sé, oltre a scomporsi e ricostituirsi costantemente, non è
distinguibile dal sé degli altri in modo chiaro come si riteneva: è proprio vero che
nessun essere umano è un’isola. Negli anni Novanta, si è scoperta l’esistenza di certe
cellule, chiamate “neuroni specchio”, presenti nel cervello dei primati (e
probabilmente anche degli esseri umani e degli uccelli). Questi neuroni, che si
trovano nella corteccia premotoria ventrale, scaricano quando le scimmie eseguono
certi compiti e anche quando osservano altri individui che eseguono quegli stessi
compiti. Le immagini del cervello umano ottenute con la risonanza magnetica
funzionale hanno mostrato la presenza di sistemi simili.
Che cosa significa? Significa che il cervello costruisce un modello del “sé” che sta
in qualche modo all’esterno. I neuroni specchio consentono al “sé” di creare un
“ponte” verso un altro sé. Le ricerche hanno mostrato che i neuroni specchio
contribuiscono allo sviluppo del linguaggio e anche delle reti sociali.
Si è scoperto che i neuroni specchio sono coinvolti anche nello sviluppo di una
teoria della mente, essendo necessari per capire (o indovinare) che cosa pensa
un’altra persona. É possibile che a causare l’autismo sia un difetto del sistema dei
neuroni specchio, poiché in molti casi gli autistici sembrano privi di una teoria della
mente. Alcuni ricercatori hanno persino ipotizzato che il sistema dei neuroni specchio
sia diverso nei due sessi, avvalorando l’asserzione spesso citata (ma poco giustificata)
che le donne hanno la fortuna di avere capacità empatiche più sviluppate rispetto agli
uomini.
Il nostro sé è temporaneo, variabile e distruttibile e per di più a quanto pare ce n’è
più di uno. Il neuroscienziato Antonio Damasio sostiene che la nostra sensibilità si
può suddividere in un sé “nucleare”, che reagisce agli stimoli e costruisce un quadro
dell’“adesso”nel cervello, e in un sé “esteso” più riflessivo, che dipende dai ricordi e
costruisce un quadro di un futuro anticipato. Il malfunzionamento dei meccanismi
che danno origine a questi sé possono avere conseguenze profonde. La demenza può
distruggere il sé esteso, mentre le lesioni cerebrali (come quella subita da Phineas
Gage) possono disgregare il sé primario, lasciando intatti i ricordi, ma «ritarando le
macchine dell’emozione e del carattere», per citare Paul Broks.
Lo studio delle condizioni derivanti da alcune malattie consente di penetrare la
natura della mente cosciente. Le persone che soffrono di amnesia transitoria di
origine epilettica possono perdere il sé esteso e diventare una massa fluttuante di
consapevolezza priva di identità. Chi è colpito da un ictus cerebrale può perdere
completamente il senso dell’identità personale ed essere comunque pienamente
cosciente e in qualche senso funzionante.
Non siamo gli stessi che eravamo dieci minuti fa, in questo senso la scienza
risponde a questa domanda. Non siamo gli stessi neanche da un pezzetto del nostro
cervello all’altro. Il nostro sé è definito in misura enorme dai nostri ricordi e tuttavia
questi possono essere falsi come un libro di favole.
Ma ciò non significa che il problema fondamentale di spiegare la consapevolezza
di sé sia davvero vicino alla soluzione. Più la scienza esplora il cervello, più diventa
chiaro che dovremmo abbandonare le idee della “scienza popolare” sul sé e
sull’identità e forse anche l’intero concetto del “mistero” della coscienza, che
potrebbe avere lo stesso destino del flogisto e della pietra filosofale. Appena
capiremo in che modo i processi fisiologici generano una sensazione di
consapevolezza di sé, non sarà più necessario invocare questa misteriosa entità. La
conseguenza pratica più evidente è che un giorno forse dovremo considerare
diversamente il trattamento che riserviamo ai criminali. Può darsi che il concetto
legale di una responsabilità che dura tutta la vita debba essere modificato.
Perdere l’anima appare come un’eventualità deprimente, un’altra vittoria del
freddo riduzionismo. Per altri versi, tuttavia, è liberatorio. Possiamo davvero vivere
momento per momento, perché non abbiamo altra scelta.
Capitolo 8
Perché siamo tutti così grassi… e ha davvero
importanza?
L’epidemia di obesità oggi in atto è uno dei fenomeni più straordinari di tutta la
storia della salute e del benessere dell’umanità. Non posso essere la stessa persona
che ero un mese fa se non altro per l’inevitabile aggiunta di qualche grammo
superfluo al mio corpo. I motivi sembrano evidenti, tanto quanto la soluzione.
La piaga dell’obesità, tuttavia, in certi modi sottili è contraria alla logica e divide i
nutrizionisti, i medici e gli stessi obesi. Come la coscienza animale, è diventata
qualcosa di più di una questione puramente scientifica, e sfiora anche la morale e
l’etica. La crisi dell’obesità ha prodotto decine e decine di teorie e mode assurde,
facendo la fortuna di altrettante persone disposte a sfruttare la sofferenza di
moltitudini oppresse. Nel frattempo, la tecnologia, la cultura globalizzata e i media
generano ideali di perfezione e di bellezza che avrebbero fatto vergognare Elena di
Troia della sua cellulite. Siamo grassi che vivono in un mondo fatto per i magri.
Le statistiche (naturalmente, se ci credete) sono impressionanti. Oggi sulla Terra le
persone che si scavano la fossa mangiando troppo (un miliardo di persone sono
sovrappeso, secondo una stima del 2006) sono più numerose delle persone che non
hanno cibo a sufficienza (800 milioni di persone soffrono di malnutrizione). In alcune
parti del mondo, gli individui in grave sovrappeso sono decisamente superiori di
numero agli snelli e anche ai rotondetti. Gli USA, con un 30 per cento di popolazione
obesa, vengono spesso citati come la capitale globale del grasso (tenendo poco conto
di singolarità come Samoa e Tonga). E il resto del mondo si sta mettendo in pari.
In Gran Bretagna, oggi due terzi degli adulti sono classificati come in sovrappeso e
più di quarto come obesi. In Scozia, la percentuale dei bambini obesi oggi supera
persino quella degli USA.
Il dato più allarmante è che negli ultimi 30 anni in un certo numero di paesi,
compresi gli USA, il Canada e gran parte dell’Europa occidentale, il tasso di obesità
infantile e adulta è triplicato o quadruplicato. Uno studio del 2006 del Department of
Health ha previsto che nel 2010 vi saranno 12 milioni di adulti obesi e un milione di
bambini obesi in Gran Bretagna. Verso la metà del secolo, se si manterranno le
tendenze attuali, negli USA quasi tutti saranno sovrappeso e la maggioranza della
popolazione sarà clinicamente obesa. I tassi di obesità stanno salendo rapidamente in
Asia, in America del Sud e persino in Africa (anche se il più grande problema del
continente resta la malnutrizione).
L’obesità è accompagnata da tutta una schiera di problemi ed effetti secondari noti,
alcuni dei quali del tutto prevedibili. Essere molto sovrappeso ha un effetto negativo
sulla qualità della vita. Malattie gravi come le cardiopatie e il diabete sono più
comuni tra gli obesi. Essere enormemente sovrappeso è pericoloso.
Questa marea di grasso sta influenzando la forma stessa del nostro mondo. Ogni
cosa dev’essere leggermente più grande di quanto fosse anche solo venticinque anni
fa. I sedili degli autobus, dei treni e degli aerei devono adattarsi ai nostri generosi
posteriori. Nei settori in cui possiamo stabilire di quanto spazio abbiamo bisogno
siamo diventati giganteschi. Le auto di oggi sono enormi balene in confronto agli
eleganti pesciolini del passato. L’auto media in vendita oggi in Europa pesa
all’incirca mezza tonnellata più di trent’anni fa. Questo aumento di peso è dovuto
anche alla presenza di dispositivi di sicurezza come airbag, parti della scocca a
deformazione controllata e vari congegni elettronici di lusso, ma ha molto a che fare
con il mero aumento di dimensioni necessario per inghiottire i nostri enormi deretani.
Negli USA, il mercato dell’auto, dopo decenni di ridimensionamenti, ha ormai
invertito tendenza. Più della metà di tutti i veicoli venduti è composta da autocarri – o
SUV – in parte perché, se peso un quinto di tonnellata e mia figlia adolescente pesa
più di Mike Tyson, in effetti abbiamo bisogno di un autocarro per andare in giro. La
nostra circonferenza ci sta facendo guidare auto più grandi e quindi sta contribuendo
al riscaldamento globale.
A prima vista, la storia dell’obesità sembra semplice. Siamo grassi perché
mangiamo troppo e facciamo troppo poco moto. Siamo diventati pigri e indolenti, ed
essendo così grassi, stiamo mettendo a grave rischio la nostra salute. La maggior
parte degli esperti finanziati dal governo avverte che nei prossimi anni si realizzerà
una crisi sanitaria legata all’obesità. E le soluzioni sono altrettanto elementari:
mangiare di meno, mangiare cibi di qualità migliore e fare più esercizio fisico.
Questa semplice tesi, però, presenta alcuni problemi corposi. Tanto per cominciare,
non è affatto assodato che essere grassi sia necessariamente pericoloso per la nostra
salute come ci hanno indotti a credere. La biologia dell’obesità si sta rivelando più
complicata di quanto si pensasse un tempo; può darsi che non tutto dipenda dalle
calorie assunte e da quelle consumate. E la soluzione, se qualche scienziato dissidente
ha ragione, potrebbe comportare qualcosa di più che mettersi a dieta.
Certamente l’epidemia di obesità non sembra – finora – danneggiarci quanto si
temeva. Nell’agosto 2006, la rivista “The Lancet” ha pubblicato uno studio condotto
dalla Mayo Clinic, in Minnesota. Si tratta di un metastudio – uno studio delle ricerche
pubblicate – che ha analizzato i dati relativi a più di 250.000 pazienti per studiare il
collegamento tra peso e salute. I dati statistici sono semplici e i risultati piuttosto
conclusivi, quindi, a differenza di molti “studi” controintuitivi che finiscono sulle
prime pagine dei giornali, questo probabilmente si può prendere sul serio.
L’équipe della Mayo Clinic ha scoperto che le persone in sovrappeso e a cui era
già stata diagnosticata una malattia cardiaca avevano tassi di sopravvivenza
significativamente migliori delle persone classificate come “normali”. Anche le
persone lievemente obese erano in condizioni migliori rispetto ai pazienti con un “più
sano” indice di massa corporea (lMC),la valutazione polivalente più comune del peso
e della salute. In realtà, solo chi era gravemente obeso era in condizioni peggiori
rispetto alle persone nella fascia del peso normale.
Anche se gli scienziati si sono sforzati di evitare di essere citati come sostenitori
del fatto che “essere un po’ grassi in realtà è salutare”, l’inevitabile conclusione dello
studio è questa. In effetti, ciò che i risultati hanno messo più in risalto è la probabile
inaffidabilità dell’IMC come strumento per valutare qualsiasi aspetto utile delle
condizioni di salute. Dividere il peso in chili per il quadrato dell’altezza in metri
produce un numero che potrebbe essere utile tanto quanto la misura del piede se il
punto è determinare la probabilità di vivere bene fino a tarda età.
Molti atleti di prim’ordine appartengono alla categoria degli “obesi”. Il giocatore
di rugby neozelandese Jonah Lomu è probabilmente una delle persone più in forma
del pianeta, eppure è ufficialmente obeso, con un IMC pari a 32. I divi di Hollywood
Brad Pitt e Russell Crowe sono, rispettivamente, sovrappeso e ai limiti dell’obesità,
anche se non c’è nessuna prova che l’uno o l’altro soffrano di qualche malattia legata
all’obesità. Di per sé il peso potrebbe essere uno scarso indice dello stato di salute,
semplicemente perché gli individui con un’elevata massa muscolare sono
relativamente densi (e questo produce un IMC alto), mentre una grande quantità di
grasso ha una densità molto inferiore. Oggi molti medici preferiscono usare la
semplice misura della circonferenza addominale, che a quanto pare è molto più
correlata alle future condizioni di salute. Anche negli USA, poche persone sono
estremamente obese (iMC superiore a 40), quindi forse non sorprende che la prevista
crisi della salute pubblica e dell’aspettativa di vita finora non si sia materializzata.
Nel 2004, il giornalista americano Morgan Spurlock ha realizzato un filmdocumentario
di grande successo, intitolato Super Size Me, in cui lo vediamo
mangiare ogni giorno per diverse settimane in un fast food della catena McDonald.
Spurlock, che prima di passare a questo regime alimentare era un giovanotto sano e
snello, racconta di essere ingrassato notevolmente, di aver subito un forte stress, di
aver perso il suo impulso sessuale e, cosa più terribile, di aver iniziato a riportare
danni al fegato. Oggi questo film viene citato come prova convincente del fatto che il
fast food fa ingrassare e di conseguenza fa anche iniziare a morire.
In realtà, i media sono stati piuttosto acritici nei confronti di Super Size Me.
Naturalmente McDonald è oggetto di un odio globale ed è un bersaglio facile, se non
facilissimo. Un eminente epatologo con cui ho parlato dopo l’uscita del film si è
mostrato estremamente sorpreso del fatto che in così breve tempo la dieta di Spurlock
avesse avuto quegli effetti sul fegato.
Nel 2006, l’esperimento di Spurlock è stato ripetuto in Svezia, questa volta in
condizioni di laboratorio controllate. Fredrik Nyström di Linköping ha fatto seguire a
18 volontari una dieta costituita da porzioni gigantesche – ma non solo di hamburger
di McDonald: le istruzioni imponevano di raddoppiare la quantità giornaliera di
calorie alimentandosi di junk food e di evitare quanto più possibile l’attività fisica (un
altro aspetto del regime di Spurlock).
I ricercatori hanno esaminato ripetutamente i volontari dalla testa ai piedi e hanno
usato una nuova tecnica radiografica, la densitometria digitale a raggi X, per misurare
con precisione la densità dei muscoli, del grasso e delle ossa; inoltre, hanno
sottoposto i pazienti a una batteria di test epatici e di controlli dei livelli di colesterolo
nel sangue. In breve, hanno effettuato ogni sorta di esame.
I risultati sono estremamente interessanti. I volontari, come prevedibile, hanno
messo su peso, ma in quantità molto diverse da un caso all’altro. Adde Karimi, uno
studente della scuola per infermieri, è ingrassato di soli 4,6 chili, metà dei quali
costituti da muscoli – questo dopo un mese a 6600 calorie al giorno e quasi nessun
esercizio fisico.
In aggiunta, i suoi livelli di colesterolo in realtà sono diminuiti. Un altro volontario
è aumentato del 15 per cento in sole due settimane. «Alcuni sono semplicemente più
inclini di altri all’obesità», ha dichiarato Nyström a “New Scientist”, che ha segnalato
l’esperimento nel gennaio 2007. Un dato interessante è che nel primo gruppo di
volontari dello studio svedese nessuno presentava quell’aumento enorme degli enzimi
epatici che aveva spinto il medico di Spurlock a fargli interrompere la dieta, anche se
alcuni volontari di altri gruppi in effetti hanno manifestato questo segno di danno
epatico.
Che cosa insegna questo esperimento? Che certamente non sta tutto nelle calorie
assunte e in quelle consumate. E l’affermazione che una dieta ipercalorica a base di
fast food fa inevitabilmente ammalare con tutta probabilità non è corretta. Con un
regime alimentare identico, alcuni ingrassano molto più di altri.
Il fatto che il collegamento tra la dieta e i livelli di colesterolo sia a dir poco tenue
era chiaro da un po’. Ma questo esperimento ha mostrato che forse i nostri pregiudizi
su questa sostanza sono proprio da abbandonare: in alcuni volontari svedesi, i livelli
di colesterolo si sono abbassati e per di più i livelli del colesterolo “buono”, le
lipoproteine ad alta densità, sono aumentati. E questo non è l’unico esperimento alla
Spurlock condotto di recente; un gruppo di altri esperimenti, in parte prodezze di
dilettanti e in parte prove più scientifiche, sembra indicare che il consumo di fast food
non basta di per sé a far ingrassare e a rovinare la salute.
La vecchia scusa dei grassoni – “È colpa del mio metabolismo” – potrebbe davvero
avere una qualche credibilità, dopo tutto. Le calorie in eccesso devono andare da
qualche parte, naturalmente. Nyström sospetta che le persone “naturalmente magre”,
se esistono, bruciano l’energia in eccesso generando calore; in effetti, ha osservato
che i volontari più magri si lamentavano molto di avere caldo e di sudare quando
seguivano la dieta ipercalorica.
Per quanto interessanti siano questi risultati, senza dubbio l’obesità è
necessariamente legata alla quantità di cibo ingerita. L’obesità è strettamente
collegata alla classe sociale e al reddito, specie in Occidente. Ogni sorta di cibo è
diventata molto più economica a partire dagli anni Cinquanta e il cibo a buon mercato
è diventato (relativamente) più economico che mai: il prezzo della frutta e della
verdura fresca, della carne e del pesce di buona qualità è sceso, ma a registrare la
diminuzione più forte è stato il prezzo dei prodotti da forno scadenti, dei dolciumi e
del fast food di bassa qualità. Negli anni Cinquanta, quando le catene di hamburger
iniziarono la loro inarrestabile espansione da un capo all’altro degli USA, un pasto in
un fast food costava all’incirca come il salario orario di un operaio. Oggi negli USA
si vendono hamburger che costano appena 39 centesimi di dollaro, che con il salario
minimo si guadagnano in circa tre minuti. Le calorie non sono mai state così
economiche in nessun luogo o epoca da quando abbiamo smesso di essere cacciatoriraccoglitori.
Anche il nostro modo di procurarci le calorie è cambiato. Se fate un giro in un
supermarket statunitense, sugli scaffali non vedrete altro che prodotti “dietetici” e “a
basso contenuto calorico”. Quel che non vedrete, sulla maggioranza delle confezioni,
è l’ammissione che gran parte del grasso eliminato è stato sostituito (come è
necessario se il prodotto deve continuare a essere commestibile) con qualcosa che si
chiama sciroppo di mais ad alta concentrazione di fruttosio (HFCS), che rimpiazzando
il buon vecchio saccarosio è diventato un ingrediente onnipresente nei cibi
confezionati americani. Lo sciroppo di mais, economico e facile da produrre in grandi
quantità, è stato oggetto di un grande interesse da parte dei media, che l’hanno
soprannominato “zucchero del diavolo”. È possibile che contribuisca alla crisi
dell’obesità.
Il suo uso negli Stati Uniti risale allo stesso periodo – i primi anni Ottanta – in cui
ebbe inizio l’epidemia di obesità. Ma non è affatto provato che la responsabilità sia di
questa sostanza. É difficile spiegare, ad esempio, perché lo sciroppo di mais dovrebbe
far ingrassare più del saccarosio. Forse è un diversivo senza fondamento.
Un altro semplice fattore dev’essere l’avvento dell’automobile. Oggi la benzina
costa di meno, in termini reali, di quanto sia mai costata, certamente di meno in
relazione ai salari. Anche il prezzo delle auto è più basso. Oggi nei paesi più ricchi
anche le persone piuttosto povere si possono permettere di viaggiare in auto, e la
maggioranza lo fa.
Negli USA, i tassi di obesità sono più alti nelle città del sud e del sud-ovest dallo
sviluppo incontrollato, in cui (oltre all’assoluta mancanza di marciapiedi e alle
condizioni climatiche spesso sgradevoli) le distanze tra le abitazioni e i servizi
fondamentali sono tali che per andare in qualsiasi posto è necessario usare l’auto. In
molte di queste città non si può andare a fare la spesa a piedi neanche volendo. A
New York le persone sono più magre che nelle aree urbane del Texas almeno in parte
perché in quella città parcheggiare è impossibile e soprattutto perché tutti possono
andare e vanno a piedi dappertutto.
Inoltre, ovviamente, il fast food e (in particolare) il fast food poco sano sono
sottoposti a campagne di commercializzazione da molti miliardi di dollari, spesso
intese a far prendere ai bambini abitudini che dureranno tutta la vita nel periodo in cui
sono più condizionabili.
Tutto sommato, in generale abbiamo uno stile di vita più sedentario di qualsiasi
epoca precedente. I civili inglesi probabilmente raggiunsero un picco di salute fisica
durante e dopo la Seconda guerra mondiale, quando la combinazione di un severo
razionamento del cibo e della scarsità di benzina portò la Gran Bretagna ad avere la
dieta forse più sana di tutta la sua storia, associata a un programma di esercizio fisico
involontario e di massa costituito da lunghi spostamenti in bicicletta e a piedi.
La generazione degli americani cresciuti negli anni Quaranta era in condizioni
ancora migliori. I giovani ben piantati – contadini e operai che si nutrivano di carne di
manzo e di mais – mandati in Europa per combattere i tedeschi sembrarono
superuomini alle popolazioni locali.
Cent’anni fa, la maggioranza dei lavoratori per svolgere il proprio lavoro usava le
mani. Oggi la potenza muscolare non è più richiesta. È difficile credere quanto fosse
dura la vita anche solo quattro o cinque generazioni fa. Oltre a dover andare sempre a
piedi, le faccende domestiche richiedevano ore e ore di lavori sfiancanti; lavorare in
una fattoria era ancora più duro, mentre la rivoluzione industriale produceva milioni
di lavori in cui la forza muscolare era molto più importante del cervello. Al giorno
d’oggi, la crescita del settore dei servizi in tutti i paesi sviluppati è tale che per la
maggior parte delle persone l’esercizio fisico, se ne fanno, è solo quello che fanno
deliberatamente.
Probabilmente milioni di occidentali non praticano alcun esercizio fisico, a parte
camminare dal parcheggio all’ufficio e viceversa. Nei paesi più ricchi (e in alcuni dei
più grassi) la paranoia dei genitori ha prodotto una generazione triste di bambini
chiusi in casa di fronte al computer, mentre dovrebbero essere fuori a giocare, e
portati in auto dappertutto, mentre dovrebbero camminare o andare in bicicletta per
incontrare gli amici e per andare a scuola.
Ma spiegare l’epidemia di obesità non può essere così semplice. In effetti
mangiamo un po’ di più e facciamo un po’ meno moto rispetto, poniamo, alla
generazione nata negli anni Trenta, ma la cattiva alimentazione e la pigrizia non sono
aumentate in misura notevole dagli anni Ottanta – quando l’epidemia di obesità ha
davvero iniziato a scatenarsi. La piaga del grasso è un fenomeno incredibilmente
moderno: non risale neanche a una generazione fa. Secondo i Centers for Disease
Control and Prevention del governo degli USA,
nel 1995, la prevalenza di obesità in ognuno dei 50 stati degli USA era inferiore al
20 per cento. Nel 2.000, gli stati con una prevalenza inferiore al 20 per cento
erano 28. Nel 2005, soltanto 4 mentre 17 stati avevano una prevalenza maggiore
o uguale al 25 per cento e in 3 di questi (Louisiana, Mississippi e West Virginia)
la prevalenza era maggiore o uguale al 30 per cento.
Senza dubbio negli anni Settanta il possesso e l’uso di un’auto negli USA non
erano diffusi come oggi, ma la differenza non è enorme. Forse l’alimentazione era
lievemente diversa, ma oggi gli americani – sorpresa! – consumano meno grassi e
molta meno carne rispetto alla generazione precedente (anche se in effetti consumano
molti più zuccheri, specie lo sciroppo di fruttosio).
Affermare che certe persone potrebbero essere in grado di mangiare decisamente
troppo (e anche di essere molto grasse) rimanendo comunque in buone condizioni di
salute è una lieve contestazione dell’ortodossia scientifica, ma suggerire che alcuni
possono diventare obesi a causa di un agente infettivo è un’eresia bella e buona.
Tuttavia, l’idea che l’obesità si possa contrarre come una malattia si sta dimostrando
sorprendentemente difficile da respingere.
L’idea che sia possibile contrarre l’obesità sembra controintuitiva e assurda. Lo
sembrava anche l’idea che si potesse contrarre un’ulcera allo stomaco, ma poi il
patologo australiano Barry Marshall ha trangugiato un cocktail di Helicobarter pylori
e ha vinto un premio Nobel per aver dimostrato che è possibile. Oggi si sospetta che
certi agenti infettivi causino una folta schiera di malattie, dalla schizofrenia alle
cardiopatie, che un tempo erano considerate come conseguenze di fattori ambientali o
genetici. Nel 2001, un’équipe della Johns Hopkins University ha scoperto che gli
schizofrenici hanno maggiori probabilità rispetto alla popolazione generale di avere
una versione attivata di un retrovirus chiamato HERV-W nel loro DNA. Ancora una
volta, questo non vuol dire che la schizofrenia sia un’infezione, ma forse indica che
attribuire tale malattia solo ai geni o all’educazione potrebbe essere una
semplificazione eccessiva.
E l’obesità? Alcuni medici, capeggiati dal carismatico dottor Nikhil Dhurandhar di
Mumbai, che ora lavora al Pennington Biomedical Research Center di Baton Rouge,
in Louisiana, ritengono che l’infezione potrebbe essere un fattore della piaga
dell’obesità.
I sospetti di Dhurandhar sono rivolti a un tipo di patogeno chiamato adenovirus;
vari ceppi sono responsabili di malattie come il raffreddore, la diarrea e la
congiuntivite. Alcuni esperimenti condotti sugli animali tra l’ultimo decennio del
Novecento e i primi anni di questo secolo hanno mostrato che un certo ceppo,
chiamato AD-36, può produrre uno spettacolare aumento di peso nelle scimmie uistitì
infettate. Un’altra prova del fatto che i virus potrebbero quanto meno contribuire alle
forme di obesità non spiegate si è avuta analizzando il sangue di un campione di
abitanti del Wisconsin, della Florida e dello Stato di New York, di cui 313 obesi e 92
magri: gli anticorpi erano presenti solo in quattro dei soggetti magri e nel 32 per
cento di quelli sovrappeso.
Per controllare che è il virus a far ingrassare le persone, e non il fatto di essere
grassi a far aumentare la suscettibilità all’infezione, Dhurandhar ha esaminato la
prevalenza dei tre adenovirus collegati – AD-2, 31 e 37 – non scoprendo alcuna
differenza tra la popolazione degli obesi e quella dei magri.
La storia della scienza è piena di tesi spettacolari del tipo “x causa un misterioso
Y”, di solito formulate da persone carismatiche e altamente qualificate, che a un certo
punto svaniscono nel nulla. In generale, il motivo per cui vengono messe da parte è la
mancanza di un meccanismo plausibile, ma il dottor Dhurandhar ha una risposta: ha
scoperto che a quanto pare il virus ha come bersaglio i precursori immaturi delle
cellule grasse, ne modifica il DNA e ne accelera la maturazione.
Non è una di quelle teorie che naufragano sulle coste selvagge della mancanza di
plausibilità. Il lavoro del dottor Dhurandhar è stato pubblicato su molte riviste che
accettano gli articoli previo parere positivo di un comitato di esperti, compreso
1’“International Journal of Obesity and Obesity Research”. «Quando ho iniziato, il
mio grado di credibilità, suppongo, era dello zero per cento», dice Dhurandhar. «Oggi
forse è del 60-70 per cento». I nutrizionisti tradizionali per la maggior parte sono
ancora piuttosto dubbiosi, ma alcuni, come il dottor Iain Bloom, uno specialista di
medicina del metabolismo dell’Università di Aberdeen, in Gran Bretagna,
appoggiano cautamente la teoria.
Quindi tutto ciò è ancora lontano dalla corrente di pensiero dominante, ma è ben
lungi dall’essere una follia. Un aspetto molto interessante è che un altro dei risultati
del dottor Dhurandhar suggerisce che l’obesità provocata dall’adenovirus potrebbe
essere associata a un’accresciuta sensibilità all’insulina, il che a sua volta
suggerirebbe che le persone che diventano sovrappeso potrebbero essere meno
suscettibili al diabete rispetto alla popolazione generale. Se si dimostrerà che gli
adenovirus sono davvero un cofattore (che probabilmente agisce di concerto con
qualche genere di suscettibilità genetica) di un certo “ceppo” di obesità, la
conclusione deprimente sarà che anche questa infezione virale, come qualsiasi altra,
con tutta probabilità si rivelerà essenzialmente incurabile.
É possibile che l’adenovirus non sia l’unico microorganismo che ci rende obesi.
Nel dicembre 2006, “Nature” ha pubblicato un articolo di Jeffrey Gordon e altri
ricercatori della Washington University School of Medicine di St Louis, nel Missouri,
che hanno scoperto che la flora intestinale di un sottoinsieme di persone obese (e di
topi obesi) presentava sottili differenze con i microbi rilevati negli individui
normali
13
. Specificamente, erano diverse le proporzioni dei gruppi batterici noti come
Firmicutes e Bacteriodetes. L’équipe di Gordon suppone che i batteri presenti negli
intestini “obesi” consentano ai loro ospiti di metabolizzare le calorie con maggiore
efficienza, facendo sì che meno nutrienti vadano sprecati nelle feci.
Pertanto è plausibile che si sia evoluto un meccanismo simbiotico di qualche
genere per cui i batteri intestinali “favorevoli” ci consentono di trarre il massimo da
ogni boccone (un bene in circostanze normali, ma un male dove le riserve di cibo
sono illimitate).
Siamo solo all’inizio. Può darsi benissimo che il “microbo che causa l’obesità”
sparisca insieme allo Snark. Ma le prove di cui disponiamo oggi indicano che
l’espansione delle nostre circonferenze addominali potrebbe essere dovuta non solo
alla pigrizia, all’ingordigia e alla prosperità in aumento, ma anche a qualcosa di un
po’più complicato. È senza dubbio vero che se tutti muoiono di fame, nessuno è
grasso. Però è anche vero che quando il cibo abbonda certe persone, anche se
sembrano consumarne una gran quantità, rimangono magre. Per lo più, le
contestazioni rivolte all’ortodossia scientifica si rivelano diversioni.
Alcune – molto poche – hanno qualcosa di vero; forse il collegamento tra infezione
e obesità appartiene a questo gruppo. Molti aspetti dell’epidemia di obesità hanno
certamente bisogno di essere spiegati – il misterioso mantenimento delle condizioni di
salute generale e dell’aspettativa di vita, la crescita veloce del fenomeno e in
particolare i risultati microbiologici che suggeriscono che all’obesità potrebbe
contribuire, oltre alla dieta, all’esercizio fisico e al genoma, anche la pura e semplice
sfortuna. «Il grasso è una questione femminista», scriveva Susie Orbach nel 1979. È
anche una questione scientifica e le risposte della scienza non si stanno rivelando
semplici come previsto.
13
R.E. Ley, P.J.Turnbaugh, S. Klein e J.I. Gordon, Microbial Ecology: Human Gut Microbes Associated with Obesity,
in “Nature”, CDXLIV, 2006, pp. 1022-1023.
Capitolo 9
Possiamo davvero essere certi che il paranormale
sia una sciocchezza?
Come la maggior parte delle persone che si considerano esseri razionali, ho una
lunga lista nera di irritanti credenze, concetti e stili di vita che a mio giudizio relegano
una persona nel lato oscuro. L’elenco comprende:
– tutte le religioni, che siano organizzate o totalmente caotiche;
– l’astrologia, i cucchiai piegati e altre presunte dimostrazioni di poteri psichici
quali la telepatia;
– qualsiasi manifestazione della New Age, compresi i chakra, la canalizzazione, i
cristalli e il chanting;
– la “saggezza orientale” e la “saggezza antica”;
– il potere curativo del canto delle balene;
– l’aromaterapia, il rebirthing e la reincarnazione;
– la medicina alternativa, in particolare l’omeopatia e ancor più in particolare
l’omoeopatia;
– gli oli essenziali;
– qualunque cosa sia ayurvedica o in cui sia coinvolto un guru;
– gli spiriti e le fate, e ancor più i loro mondi.
Collettivamente, tutta questa roba mi fa venire l’orticaria. In verità sospetto che la
tipica domanda da bar, “Di che segno sei?”, sia un eccellente adattamento darwiniano
inserito nelle strategie di accoppiamento degli illusi per segnalare alle persone
ragionevoli di tenersi alla larga e proteggere i propri geni.
Nella mia visione del mondo (e nella visione del” mondo della maggioranza delle
persone che conosco e amo, che, naturalmente, sono tutte persone ragionevoli e
giudiziose come me), si tratta di cose assolutamente prive di senso, frutto della
fantasia di coloro che non sono interessati a scoprire quanto è meraviglioso il mondo
nella realtà, ma invece desiderano sostituirlo con una sgargiante versione disneyana,
dove in fondo a ogni giardino ci sono le fate e nel cielo c’è un omone gentile che fa
attenzione a ogni nostra mossa.
È stato particolarmente piacevole quando un professore di psicologia un giorno mi
ha detto che in generale credere a cose come l’astrologia e il misticismo è
strettamente correlato a una concezione del mondo di destra e molto conservatrice.
Splendido, ho pensato: questi pazzi non solo parlano di cose senza senso, ma sono
anche una banda di nazisti. Quindi detestarli va più che bene, è quasi un dovere.
Ecco un altro elenco, questa volta di cose in cui credo:
– esistono stelle enormi che collassano per il loro stesso peso e nel cui centro
forse si trovano portali verso altri universi;
– è possibile che esista un numero infinito di universi paralleli, ciascuno
contenente ogni possibile permutazione nella storia del tempo; credo che sia
quasi possibile che esista non solo un universo in cui nel 2.000 Al Gore è
diventato presidente degli USA, ma anche un posto più sventurato in cui Hitler
ha vinto la Seconda guerra mondiale;
– oggetti come gli elettroni e forse persino interi atomi possono essere in due
luoghi diversi allo stesso tempo;
– quando si porta un cronografo a bordo di un aereo di linea che vola sopra
l’Atlantico, l’atto di accelerare questo oggetto fino a qualche centinaio di
chilometri all’ora lo farà andare un poco più lentamente;
– l’universo ha avuto inizio in un’immensa esplosione dello spazio, della materia
e forse anche del tempo e siamo riusciti a stabilire quando è avvenuto tale
evento, all’incirca 13,7 miliardi di anni fa;
– l’universo è pieno di una strana sostanza invisibile che non fa assolutamente
notare la sua presenza se non attraverso l’attrazione gravitazionale che esercita
sulla materia ordinaria; inoltre, sono piuttosto disposto a credere in una
mostruosa forza oscura, ancor più misteriosa, che a quanto pare un giorno
potrebbe mandare tutto in pezzi.
Che cos’è che rende diversi i due insiemi di credenze? Che cos’è che rende
“scientifico” il secondo gruppo e assurdo il primo? Perché credere nell’omeopatia è
sciocco, mentre credere nella teoria delle stringhe è del tutto ragionevole e ortodosso?
Perché si vince un premio Nobel se si lavora in uno di questi settori, mentre se ci si
occupa del primo si è fatti oggetto di scherno?
Per rispondere, occorre considerare che cos’è la scienza. Il rifiuto di convinzioni
“eccentriche”, come credere nei chakra o nell’omeopatia, non è dovuto al fatto che si
tratta di cose intrinsecamente strane, o addirittura misteriose. Dopo tutto, gli
esperimenti realizzati dai fisici quantistici hanno mostrato che due elettroni possono
inviare “messaggi” l’uno all’altro a una velocità migliaia di volte superiore a quella
della luce. Qualsiasi spiegazione di questo fenomeno dell’entanglement è legata a
ipotesi come l’invio di messaggi a ritroso nel tempo, che è decisamente più strana
dell’omeopatia.
No, la scienza non scarta certe convinzioni perché sembrano eccentriche, ma
perché sono state controllate sperimentalmente e si sono dimostrate ipotesi carenti. Il
metodo scientifico afferma che quando si ha un’idea, la si verifica per controllare se è
vera. Credere – tranne che nella validità di questo metodo – non ha, o non dovrebbe
avere, alcuna parte. E ogni qual volta la scienza ha cercato di verificare l’efficacia
dell’omeopatia o l’esistenza della telepatia, ha sempre fallito. La “dimostrazione”,
quando ne esiste una, dei fenomeni del primo elenco si basa per lo più su aneddoti. E
le prove aneddotiche, seppur non sempre del tutto senza valore, in generale sono
nemiche della ragione.
Dobbiamo fare molta attenzione, però. É facile scartare un intero insieme di
credenze – anzi, un intero sistema di credenze – basandosi non sulle prove, ma sul
puro e semplice pregiudizio. Ed è fin troppo facile collegare un certo insieme di
credenze (a favore delle quali non esistono prove) con un altro (per cui ne potrebbero
esistere) semplicemente perché sembrano in qualche modo simili e tendono ad avere
gli stessi seguaci. Le persone che “credono” nella terapia dei cristalli e nei chakra
spesso credono anche nell’agopuntura e nella telepatia. Tuttavia, mentre non esiste
alcuna prova della realtà dei primi due, ve ne sono molte a favore del fatto che
l’agopuntura “funziona” e alcune a favore della telepatia.
Spesso chi crede nel paranormale fa notare che la scienza è del tutto disposta a
credere non solo in fenomeni misteriosi (come l’entangkment), ma anche in fenomeni
che non sono avvalorati da molte prove sperimentali.
Non hanno tutti i torti. Consideriamo, ad esempio, la teoria delle stringhe, l’idea
che in essenza l’universo sia composto da innumerevoli e minuscole cordicelle
vibranti fatte, forse, di spaziotempo. Ogni cordicella vibra producendo un accordo
diverso e questo crea gli elettroni, i quark, i neutrini e tutte le altre particelle di cui
siamo fatti. È una teoria bellissima e, almeno per quanto riguarda i concetti più
generali, piuttosto semplice e se la scienza ci ha insegnato qualcosa è proprio il fatto
che la risposta più semplice molto spesso è quella giusta. Ma questa è giusta?
Dal punto di vista matematico, la teoria delle stringhe (così mi dicono) ha tutte le
carte in regola. Quando ho incontrato Lisa Randall, fisica di Harvard e accesa
sostenitrice del fatto che la teoria delle stringhe è la miglior candidata possibile come
teoria del tutto, la sua passione mi ha davvero impressionato. Persone come Randall
vivono in un mondo mentale su cui noi possiamo soltanto gettare uno sguardo pieni
di soggezione. Chi siamo noi per dubitare di loro?
In realtà, però, alcune persone di gran lunga più preparate di me nutrono molti
dubbi. La teoria delle stringhe, fino a questo momento, non è stata mai confermata da
prove osservazionali o sperimentali. E nei suoi confronti si è già sviluppata una forte
reazione negativa. Il problema di questa teoria, affermano gli scettici, è che in
sostanza è impossibile da verificare e questa caratteristica la rende fondamentalmente
non scientifica. Infatti, per individuare e studiare particelle di queste dimensioni sarà
necessario costruire acceleratori di due o tre ordini di grandezza più potenti di
qualsiasi macchina concepita finora.
E lo scetticismo riguardo la “nuova scienza misteriosa” non si ferma qui. Gli
universi paralleli sono una soluzione elegante di due grandi problemi scientifici: la
descrizione completa degli eventi quantistici e la spiegazione del motivo per cui
l’universo appare regolato così finemente per permettere la vita. E tuttavia, proprio
come per le stringhe, non abbiamo assolutamente alcuna prova empirica
dell’esistenza di universi in cui Hitler ha vinto la guerra o in cui un altro Michael
Hanlon in questo momento sta scrivendo un trattato di astrologia felina.
In parte, il motivo per cui la teoria delle stringhe e, ad esempio, l’omeopatia sono
state inserite in elenchi diversi è costituito, naturalmente, dai personaggi coinvolti. Le
persone che lavorano alla teoria delle stringhe, come i ricercatori che si occupano
della materia oscura o quelli che cercano di spiegare la natura e la possibile causa del
Big Bang, sono scienziati rispettabili, in effetti persone rispettabili, senza dubbio
molto intelligenti e con anni di preparazione alle spalle.
Questi ricercatori sottopongono i loro risultati a riviste prestigiose dove una
squadra di colleghi fa spietatamente a pezzi il loro lavoro, alla ricerca di difetti e di
qualsiasi prova di errore o frode. Le loro intuizioni, ipotesi e teorie sono verificabili e
fallibili e i loro esperimenti riproducibili ed è questo che ne fa scienziati rispettabili e
non ciarlatani.
Qualcuno diventa una celebrità, scrive best-seller e si arricchisce, ma si tratta di
casi rari. Alcuni sono individui insopportabilmente egoisti e si comportano da prime
donne esattamente come le peggiori dive del mondo dello spettacolo. Ma, di nuovo,
sono una minoranza. La maggior parte degli scienziati di primo piano che ho
incontrato, compresi alcuni Nobel, sono persone sorprendentemente modeste e molti
di loro, forse la maggioranza, trovano imbarazzante e difficoltosa la fama che senza
volere si sono conquistati.
Consideriamo ora i personaggi del primo gruppo: spesso sono vestiti in modo
ridicolo e snocciolano incomprensibili stupidaggini, per di più chi ha più successo nel
proporle sembra avere una vera e propria adorazione per la fama e il denaro. Non è
richiesta una grande preparazione per piegare i cucchiai o per intraprendere la carriera
di astrologo o di guaritore che usa il potere curativo della preghiera, basta avere un
po’ di fascino, la scorza dura, una “dote naturale” e una personalità brillante. Spesso
queste persone reagiscono molto male quando vengono invitate a sottoporre i loro
risultati o le loro qualifiche a un esame critico serio e spesso consultano
immediatamente il loro avvocato quando qualcuno suggerisce che potrebbero essere
in errore riguardo alle loro credenze.
Il lavoro di queste persone è molto favorito dallo strano clima moderno di
scetticismo, per meglio dire di cinismo, nei confronti di qualsiasi affermazione
scientifica, un rifiuto del “pensiero moderno” o, meglio, un implicito rifiuto (anche se
non viene mai formulato così) di tutto il progetto dell’Illuminismo.
Va citato, infine, il dato di fatto immutabile che, storicamente, anche la scienza più
temeraria e di punta in gran parte si dimostra giusta. Credere che su un aereo un
orologio vada più lentamente sembra sciocco tanto quanto credere che la posizione
del pianeta Nettuno quando siamo nati possa influenzare la nostra carriera e la nostra
scelta del partner. Il fatto è, però, che il primo fenomeno si può misurare con grande
precisione usando orologi atomici e in effetti si è dimostrato che gli orologi
rallentano. D’altra parte, si è anche dimostrato che la posizione di Nettuno,
statisticamente, non ha alcuna influenza sull’andamento della nostra vita.
L’idea di materia oscura sembra altrettanto assurda se non ci si rende conto che in
effetti elaborati e costosi telescopi e computer consentono di scorgere distintamente
nel cielo l’ombra gravitazionale di questa sostanza. Nessuno ha mai pubblicato un
articolo su “Nature” descrivendo la propria capacità di piegare i cucchiai o di
prevedere il futuro.
É tuttavia in questo modo corriamo il rischio di creare una falsa dicotomia, una
barriera non necessaria tra il logico e l’assurdo, che in realtà è una barriera tra due
mentalità diverse più che tra il reale e l’irreale. I fenomeni strani, impossibili,
bizzarri, o addirittura misteriosi vanno bene a patto che siano “scientifici”, ma non se
sono semplicemente misteriosi. L’azione quantistica a distanza va bene; gli spiriti no.
La coscienza quantistica è un argomento degno di essere discusso, la telepatia è
inaccettabile. La NASA assume al proprio servizio schiere di scienziati per valutare
la possibilità dell’esistenza di microbi su Marte, eppure credere seriamente negli
UFO vuol dire sconfinare nella follia – e di certo non sarà un punto a vostro favore se
avete fatto domanda per essere assunti alla NASA.
Anche se possiamo tutti convenire sul fatto che la terapia dei cristalli e la
canalizzazione sono quasi certamente sciocchezze di prim’ordine, che dire
dell’ipnotismo e dell’agopuntura? Possiamo essere proprio sicuri che tutta questa
roba – roba da pazzi, creduloni e disonesti – vada buttata via insieme all’acqua sporca
della mistica e dell’astrologia?
Forse dobbiamo riflettere più attentamente sul punto esatto in cui piazziamo la
nostra “grande muraglia” tra il razionale e l’assurdo e magari tenere conto del fatto
che a volte potrebbe essere necessario aprirvi qualche varco?
I fondamentalisti direbbero che dedicare trasmissioni radiofoniche e televisive a
uno qualsiasi di questi argomenti è un abominio. Ricordo che qualche anno fa un
illustrissimo pensatore inglese disse alla radio che non avrebbe voluto avere a che
fare con la telepatia anche se si fosse potuto dimostrare, al di là di ogni ragionevole
dubbio, che è reale. Una tale scoperta, a suo giudizio, sarebbe insignificante e
trascurabile, non rivelerebbe granché che già non si sappia sul cervello e sulla mente,
sul funzionamento del mondo e sul nostro posto al suo interno.
Mi dispiace, ma è un atteggiamento che non va bene. Per citare le parole di Brian
Josephson, fisico vincitore di un premio Nobel e simpatizzante del paranormale, si
tratta di un’«incredulità patologica […] è come dire: “non ci crederei neanche se fosse
vero”».
Invece, se si potesse dimostrare, ad esempio, che la telepatia funziona, sarebbe
indubbiamente una scoperta che cambierebbe molte cose. Se scoprissimo che il
cervello è capace di comunicare nello spazio vuoto, direttamente e senza l’ausilio
della comunicazione orale, questo solo fatto ci consentirebbe di approfondire la
nostra comprensione della coscienza umana, della mente e della trasmissione
dell’informazione. Ovviamente non ho idea di come possa funzionare la telepatia, se
funziona (cosa che dubito), ma non è questo il punto. Forse potrebbe essere collegata
a qualche misterioso fenomeno quantistico, forse a una sorta di campo elettrico.
Secondo Richard Wiseman, uno psicologo britannico che studia e commenta la
parapsicologia da molti anni, la scoperta che uno qualsiasi di questi argomenti è reale
avrebbe un’enorme importanza:
Il nostro modello scientifico del mondo non cambierebbe di poco se l’astrologia,
la percezione extrasensoriale o i fantasmi fossero cose reali. Sarebbe un
cambiamento radicale. Ecco perché di fronte a tali argomenti molti scienziati
dichiarano immediatamente che non possono essere veri. Dobbiamo ricordare
che all’incirca metà del pubblico crede in questi fenomeni, che quindi meritano
di essere indagati solo per questo.
La scienza si occupa di saggiare le idee, sottoporle a ogni genere di prova, torcerle
fino a eliminare l’ultima possibile anomalia e poi stenderle ad asciugare. Non mi
basta dimostrare che qualcosa è giusto, devo anche mostrare a tutti che cosa ho fatto e
altri devono ripetere i miei esperimenti e ottenere gli stessi risultati. Soltanto a quel
punto la conoscenza è progredita.
Questo rigore si può applicare in qualche modo allo studio del paranormale? In
realtà, sì. Il termine “parapsicologia” indica un gruppo di fenomeni (per ora) ipotetici,
tra cui la percezione extrasensoriale (ESP), la telepatia, la chiaroveggenza, la
precognizione, la visione a distanza, la telecinesi, la guarigione psichica e i campi
morfici.
La caratteristica comune a tutti questi fenomeni è il fatto di essere, quanto meno in
linea di principio, verificabili. E in effetti sin dall’ultimo decennio dell’Ottocento si
sono compiuti sforzi concertati per scoprire se sono reali, in condizioni controllate, in
laboratorio. Alcuni di questi esperimenti, in cui le persone siedono in stanze sigillate
e cercano di trasmettere immagini disegnate su cartoncini – cerchi, quadrati, linee
ondulate e così via – a un altro volontario che sta in un’altra stanza sigillata, sono
diventati piuttosto famosi.
Finora si sono sempre ottenuti risultati alquanto confusi. Individualmente, alcuni
studi hanno mostrato qualche effetto statisticamente significativo (vale a dire che i
“riceventi” forniscono la risposta “giusta” molto più spesso di quanto dovrebbe
avvenire se rispondessero a caso), ma gli scettici fanno notare che se si fa uno “studio
degli studi”, se si considerano decine o centinaia di singoli tentativi di scoprire
fenomeni paranormali, i risultati interessanti scompaiono in un soffio.
Bisogna riconoscere che finora nessuna indagine sulla telepatia ha prodotto
risultati che abbiano convinto la scienza tradizionale che esiste realmente qualche
effetto interessante. D’altro canto, i parapsicologi sostengono che invece questi
metastudi rafforzano la certezza dell’esistenza di qualcosa di interessante.
Forse i più “riusciti” fra i testi dell’ESP sono i cosiddetti esperimenti Ganzfeld,
condotti per la prima volta negli anni Settanta del Novecento. I “riceventi” volontari
stanno seduti in una stanza insonorizzata, immersi in una luce rossa, con due mezze
palline traslucide poste sugli occhi e le cuffie che trasmettono un rumore di fondo.
L’idea è creare una “esperienza sensoriale costante”, che predisponga alla ricezione
di segnali telepatici, nel caso ne arrivino.
Esistono varie versioni di questa metodologia, ma essenzialmente ai riceventi viene
chiesto di classificare una serie di immagini a seconda del grado di corrispondenza
con i “segnali” inviati dal “trasmettitore”, che si trova in una stanza sigillata. Secondo
gli sperimentatori, complessivamente le prove Ganzfeld hanno indicato l’esistenza di
effetti paranormali al di là di ogni ragionevole dubbio – uno dei dati citati è che la
probabilità di ottenere per caso risultati come quelli raggiunti è soltanto di 1 su 29
miliardi di miliardi (29 seguito da 18 zeri).
Da allora, comunque, le metanalisi degli esperimenti Ganzfeld, realizzate da
Richard Wiseman e da altri, a quanto pare non hanno rivelato alcun effetto del
genere. Qualcuno ha mosso accuse non dimostrate di errori e irregolarità negli
esperimenti. Un punto forse più importante è che si è messo in dubbio l’assunto che
qualsiasi anomalia statistica sia necessariamente dovuta a un misterioso effetto
paranormale; forse si tratta davvero di telepatia, ma forse c’è un errore finora
insospettato nel protocollo sperimentale.
Si realizzano esperimenti, se ne discutono i risultati, e la parapsicologia nel suo
insieme viene e passa di moda. Cent’anni fa, era ragionevolmente rispettabile (anche
Alfred Russel Wallace, il grande protetto di Darwin, se ne occupò a fondo). Poi, agli
albori del Novecento, si instaurò una mentalità ispirata dal razionalismo estremo e
qualunque genere di ricerca sul paranormale diventò gravemente inaccettabile.
Poi arrivarono gli esperimenti di ESP e ora, infine, il nuovo scetticismo. É pur vero
che oggi molte università rispettabili comprendono dipartimenti e istituti di ricerca
dedicati alla parapsicologia, ciò nonostante tutto il settore è ancora contaminato dalla
sua associazione con i ciarlatani e gli impostori che organizzarono i movimenti
spiritualisti dell’epoca vittoriana. Alcuni ritengono che questo abbia creato un
pregiudizio irrazionale. Brian Josephson ha accusato riviste tradizionali quali
“Nature” e “Science” di censurare completamente qualsiasi articolo sulla telepatia,
sulla telecinesi e su altri argomenti simili. Mettiamola così: manifestare interesse per
gli effetti paranormali non farà affluire finanziamenti per le ricerche.
Gli scienziati hanno una naturale tendenza a diffidare delle idee che non
appartengono all’insieme delle loro conoscenze. É diffusa la sensazione, ad esempio,
che la parapsicologia in parte sia “posseduta” da persone che non appartengono al
settore tradizionale della psicologia. Ciò potrebbe spiegare un risultato notevole e
illuminante che risale al 1979, quando una ricerca condotta su più di mille docenti
universitari americani rivelò che la maggior parte (55 per cento) dei docenti di
scienze naturali, una larga maggioranza (66 per cento) di quelli delle scienze sociali e
una percentuale ancora più alta (77 per cento) dei docenti di arte erano disposte ad
accettare che l’ESP fosse quanto meno una possibilità degna di essere studiata.
L’unico gruppo che espresse un estremo scetticismo fu quello degli psicologi:
soltanto il 34 per cento la considerava possibile e una percentuale simile disse che
l’ESP era impossibile, un punto di vista condiviso soltanto dal 2 per cento di tutto il
campione.
In un articolo pubblicato nel 1994 sulla rivista “Psychological Bulletin”, intitolato
Does Psi Exist? Replicable Evidence for an Anomalous Process of Information
Transfer, Daryl Bem e Charles Honorton commentarono così quelle percentuali:
Noi psicologi probabilmente siamo più scettici nei confronti del paranormale per
parecchie ragioni. Innanzitutto, crediamo che una tesi straordinaria richieda una
dimostrazione straordinaria. E anche se probabilmente i nostri colleghi di altre
discipline sarebbero d’accordo con questa affermazione, è ragionevole pensare
che noi conosciamo meglio i requisiti metodologici e statistici necessari per
convalidare queste tesi, e conosciamo meglio anche altre tesi precedenti che non
li soddisfacevano o che non hanno superato con successo la prova della
ripetizione. Anche nel caso delle tesi ordinarie, i nostri criteri statistici
tradizionali sono ispirati alla massima prudenza. La sacra soglia di p = 0,05
ricorda costantemente che è molto più grave affermare che un effetto esiste
quando non esiste (errore di Tipo 1) piuttosto che affermare che non esiste
quando invece è reale (errore di Tipo 2).
Le dichiarazioni di Bern e Honorton equivalgono a una difesa dello scetticismo
psicologico.
Richard Wiseman aggiunge:
Gli psicologi hanno svolto una gran mole di ricerche che provano come spesso le
persone siano guidate dalle loro credenze quando valutano le prove, invece di
essere più razionali. Inoltre, com’è ovvio, gli psicologi conducono ricerche sulle
persone, non sulle sostanze chimiche, e quindi sono abituati al fatto che le
persone imbrogliano, non dicono tutta la verità e così via. Per tale motivo, penso
che siano consapevoli come nessun altro di come le prove di un effetto possano
essere dovute all’inganno e all’autoinganno.
In altre parole, gli psicologi lavorano in un mondo in cui le persone mentono
molto. I fisici no. Questo rende i fisici un po’ più creduloni.
Nell’articolo Biological Utilization qf Quantum Nonlocality, pubblicato nel 1991
su “Foundations of Physics”, Brian Josephson e Fotini Pallikari-Viras hanno proposto
con molta cautela l’ipotesi che il meccanismo della telepatia possa essere il fenomeno
di entanglement quantistico – che Einstein, com’è noto, respinse in quanto
«misteriosa azione a distanza».
Non sorprende affatto che la ben nota stranezza del mondo quantistico sia citata
spesso come possibile (forse come l’unica possibile) spiegazione di vari effetti
paranormali, dall’ESP al fenomeno stesso della coscienza. Il fisico di Oxford Roger
Penrose ha ipotizzato che i microtubuli, microscopiche strutture all’interno del
cervello (in realtà si trovano in tutte le cellule), siano in grado di utilizzare gli effetti
quantistici per produrre gli effetti non deterministici della consapevolezza di sé e del
libero arbitrio, una concezione che molti suoi colleghi hanno giudicato una vera
sciocchezza.
In breve, Josephson e Pallikari-Viras affermano che non è impossibile che
l’esistenza di “influenze a distanza” suggerita dalla teoria quantistica (in cui lo stato
quantistico di oggetti come elettroni o fotoni, ad esempio lo spin, o la polarizzazione,
può presentare una correlazione a distanze arbitrariamente grandi dopo la loro
separazione) indichi la possibilità che dietro alla connessione diretta tra menti diverse
(telepatia) e tra mente e materia (telecinesi) vi sia lo stesso effetto.
Per quanto riguarda un effettivo meccanismo, gli autori riconoscono che fare
appello a effetti quantistici in una struttura macroscopica come il cervello mette a
dura prova la credulità, però sostengono che è del tutto plausibile che durante la lunga
evoluzione della vita sulla Terra la selezione naturale abbia assoggettato il mondo
quantistico al fine di utilizzarne le proprietà per i propri scopi.
Alcuni invocano una grandiosa interconnessione tra tutte le forme di vita, una sorta
di megacoscienza superjunghiana. Oggi, Brian Josephson sostiene che l’idea che
saremo obbligati a “buttare via la scienza” se accetteremo la realtà di qualche
fenomeno fisico è
un ragionamento farraginoso, una sciocchezza. Forse la fìsica fondamentale
dovrà cambiare un po’ per far posto alla mente, ma non è giusto dire che
dovrebbe scomparire completamente. Nella scienza, quando arrivano nuove
scoperte accade raramente che sia necessario sovvertire tutte le credenze
precedenti.
Resta comunque un interrogativo: perché dovremmo prendere sul serio tutto ciò?
Dopo tutto, qual è la differenza tra la telepatia e la fatina dei denti? Potrebbe essere
difficile e persino impossibile dimostrare che questi fenomeni non sono reali, ma che
senso ha sprecare tempo, energia e denaro indagando fenomeni che probabilmente
sono al massimo marginali e molto probabilmente niente altro che il frutto della
nostra immaginazione collettiva?
Bene, tanto per cominciare, anche se non dovessimo mai scoprire alcuna prova di
qualche capacità psichica, effettuando esperimenti sull’ESP con tutta probabilità
scopriremo molte cose interessanti sulla psicologia del sé e dell’inganno. Questa sola
ragione fa sì che valga la pena realizzare queste ricerche.
Un punto più fondamentale è che la parapsicologia è un fenomeno “reale” se non
altro perché così tante persone la percepiscono come tale. Tutte le culture, a quanto
pare in tutte le epoche storiche, hanno segnalato un qualche genere di comunicazione
non orale. Nella maggior parte delle culture si ha notizia di casi di individui capaci di
entrare istantaneamente in contatto con altri individui molto lontani.
Credo che un aspetto interessante di questo fenomeno sia che l’esperienza della
telepatia, per quanto molto comune, non è affatto universale e quando viene riferita
pare un effetto piuttosto marginale. In un certo senso, è più facile respingere la
credenza nella vita nell’aldilà e in varie divinità, semplicemente perché è così
universale (e pertanto accettata e incontestata).
Gli effetti paranormali semplici sembrano rari e li si è sempre considerati alquanto
speciali e probabilmente piuttosto dubbi. A quanto pare, sono anche privi di
connotazioni politiche, religiose ed emotive. Per quel che vale, personalmente non
credo che la telepatia e altri effetti paranormali collegati siano reali, o quanto meno
non credo che mi sia mai stato mostrato qualcosa che potesse convincermi che sono
reali, ma non ho ragione di credere con qualche grado di certezza che non lo siano.
Che dire di tutto il resto del paranormale? Si può redigere una sorta di “classifica
della pazzia”, con gli elementi più plausibili in testa e i più folli al fondo. Al primo
posto, suppongo, ci sarebbe ciò che di recente il sommo sacerdote del razionalismo,
Richard Dawkins, ha soprannominato il “perinormale”. Questa classe comprende
l’ipnosi e forse l’agopuntura, che oggi, sulla base di prove cliniche serie, sono
largamente accettate come fenomeni reali, per quanto misteriosi. Dawkins vi
includerebbe anche la telepatia? Quasi certamente no – sembra quasi di sentire la sua
risata beffarda.
Al secondo posto, si trovano i fenomeni paranormali classici: la telepatia, la
visione a distanza, forse la telecinesi. Le prove a favore della realtà di tali fenomeni
sono dibattute e oltremodo controverse. Ma in confronto al gruppo successivo sembra
quasi trattarsi di fisica newtoniana.
Qui entra in scena un fenomeno curioso, per lo più nordamericano, chiamato
“preghiera di intercessione” (PI). Si tratta di una fusione profana di parapsicologia,
misticismo e religione tradizionale. Negli studi sulla PI, si misura quale effetto ha sui
malati il fatto che un gruppo di volontari rivolga preghiere a Dio per ottenere la loro
guarigione (stranamente, sembra che non succeda mai che i volontari preghino per
ottenere un peggioramento delle condizioni dei malati, anche se per la correttezza
scientifica si dovrebbe certamente realizzare anche questo esperimento).
Sono stati pubblicati diversi studi sulla PI che mostrano l’esistenza di un effetto.
Per citare un esempio, nel 2001 Leonard Leibovici del Rabin Medical Center, in
Israele, ha pubblicato un articolo sul “British Medical Journal” in cui sosteneva che
un gruppo di pazienti con varie infezioni del sangue erano in condizioni lievemente
migliori (la differenza era lieve, ma statisticamente significativa) rispetto ai pazienti
per cui nessuno pregava. Alcuni studi condotti negli USA hanno “dimostrato” effetti
lievi, ma significativi, su pazienti in ripresa dopo un infarto e un intervento
chirurgico.
Gli studi sulla PI, naturalmente, sono assai controversi. Perché, domandano molti
scienziati, si dovrebbe spendere denaro – a volte denaro pubblico – per finanziare un
settore di ricerca così eccentrico e culturalmente specifico? Al di fuori della zona
protestante degli USA l’idea della PI fa rabbrividire. E non è condivisa anche da
molte persone religiose; l’idea che il loro Dio scelga di intervenire per aiutare alcune
persone e non altre semplicemente sulla base di un esperimento medico sembra
minare la concezione diffusa dell’amorevolezza e della giustizia di Dio.
Al posto successivo, troviamo gli UFO. Poco plausibile, anche se non impossibile,
l’idea che la Terra venga visitata da astronavi aliene probabilmente appartiene allo
stesso pensiero di gruppo in cui rientrano la PI e le punte più stravaganti dell’ESP.
Gli argomenti contrari e favorevoli agli UFO sono triti e ritriti e non vale la pena
ripeterli qui, tranne quello che afferma che se fosse certamente e dimostrabilmente
vero che nessun alieno ha mai visitato la Terra su un disco volante (il che non potrà
mai essere), sarebbe altresì certamente vero che dopo l’invenzione del concetto di
alieno da parte dell’umanità i dischi volanti prima o poi si faranno vedere.
L’omeopatia? Niente da fare. Si possono realizzare studi in doppio cieco – come in
effetti si è fatto – e non si trova alcun effetto (salvo forse un effetto placebo piuttosto
interessante).
La reincarnazione? Che senso ha? Ora siamo sul pendio sempre più scosceso e
scivoloso che fa precipitare nel lato oscuro della ragione. La religione “vera e
propria” probabilmente appartiene a una categoria a sé, forse a un’altra lega, un po’
come le due associazioni rivali nel rugby.
Da ultimo, sembra necessario tracciare una linea di demarcazione. Una barriera –
non ininterrotta, ma discontinua e permeabile – tra ciò che è accettabile e ciò che non
lo è. Richard Dawkins probabilmente è troppo severo a questo proposito, ma la sua
idea è buona. Potremo accettare, con riluttanza e magari scalciando e protestando un
po’, i fenomeni paranormali (anzi, “perinormali”) nei ranghi della scienza se e
quando disporremo di prove schiaccianti dell’esistenza di qualcosa che vale la pena
studiare.
I fenomeni paranormali, probabilmente, sono sciocchezze. In massima parte e il
più delle volte. Ma nelle zone di frontiera è possibile che la scienza stia iniziando a
indagare qualcosa che è enormemente e profondamente interessante tanto quanto i
fenomeni più folli della nuova fisica e della nuova cosmologia. Se siamo disposti a
credere nella materia oscura, nell’iperspazio multidimensionale, nell’energia oscura e
nelle singolarità nude, credo che un po’ di telepatia non sia troppo difficile da mandar
giù.
Capitolo 10
Che cos’è effettivamente la realtà?
Non è una domanda sul significato della vita. La vita ha il significato che ognuno
di noi decide di darle ed è un argomento che va bene discutere al bar, non in un libro
di scienza. Non si tratta nemmeno di una domanda puramente metafisica, anche se
riguarda settori che tradizionalmente appartengono al dominio della filosofia. E
invece una domanda sulla vera natura dell’universo. Al fondo della questione sta un
interrogativo fondamentale che ancora non ha trovato risposta: perché mai dovrebbe
esistere qualcosa? «Che cos’è che soffia il fuoco vitale nelle equazioni? Perché
l’universo si prende la briga di esistere?», ha scritto il fisico Stephen Hawking.
Quando gli scienziati parlano della realtà parlano di cose tangibili – atomi e
molecole, particelle e radiazioni. Ma questa naturalmente è solo la nostra realtà.
Direttamente, attraverso i sensi, o indirettamente, attraverso le macchine, noi
costruiamo un’immagine della realtà, qualcosa che non sta lassù tra le stelle e le
galassie, ma nella nostra testa.
La vecchia storiella solipsista per cui il mondo è un prodotto della nostra
immaginazione non si può scartare in quattro e quattr’otto. Così come l’idea che il
mondo, compresi noi, sia un prodotto dell’immaginazione di qualcun altro. Ciò
premesso, il fatto che siamo stati capaci di formulare leggi fisiche che corrispondono
così fedelmente alle nostre osservazioni suggerisce che, anche se la “realtà” potrebbe
essere ciò che percepiamo, è certo che noi percepiamo qualcosa di molto concreto.
Ma molti aspetti della natura ultima dell’universo sono ancora sconosciuti. Tanto
per cominciare, qual è la sua causa primaria? Vent’anni fa, i cosmologi stabilirono
senza mezzi termini che la risposta era semplicemente il “Big Bang” e chiusero la
questione, ma oggi gli scienziati cominciano a rendersi conto che non è una risposta
soddisfacente. Che cosa è stato esattamente a esplodere? Perché è esploso e che cosa
è successo prima?
Non sappiamo se le leggi che governano il nostro universo siano totalmente
arbitrarie o se siano le uniche possibili. Il valore della costante gravitazionale, ad
esempio, potrebbe essere la metà o il doppio di quello osservato? Oppure vi è una
logica profonda alla base delle leggi fisiche, simile alle fondamenta di una casa, che
impone che un universo, per poter esistere, possa organizzarsi in un solo modo? E se
questo è vero, da dove provengono queste leggi?
Forse la domanda più difficile per la fisica, una domanda per cui la scienza non ha
assolutamente una risposta, è quella formulata da Hawking. Se ho capito bene, si può
riassumere così: “É vero che, se esiste un insieme di leggi fondamentali o
proposizioni logiche alla base di tutto, è la natura di queste leggi a imporre l’esistenza
dell’universo e quindi la loro stessa esistenza?”.
In altre parole, è vero che è impossibile che non esista alcunché? E se invece è
possibile, allora il fatto che chiaramente esiste qualcosa ha qualche significato?
Infine, ciò che vediamo è proprio ciò che pensiamo di vedere? Da quando
iniziarono a interrogarsi sul mondo e sulla sua natura, gli esseri umani hanno ideato
una bella varietà di cosmologie popolari bizzarre. La Terra siede sul dorso di una
tartaruga. La Terra è un disco che galleggia in un mare infinito. Il cielo è una volta
che lascia passare le luci del paradiso attraverso le infinite punture di spillo che
chiamiamo stelle.
Per noi l’universo è un’enorme sfera, di 92 miliardi di anni luce di diametro, di
spaziotempo in espansione, governata da un misterioso campo di forze oscure che
non comprendiamo e popolata in massima parte da una fantomatica forma di materia
che non possiamo vedere né toccare. E forse meno strano delle vecchie cosmologie
popolari? Ed è una descrizione completa? O il “nostro” universo è solo un minuscolo
granello di polvere sulla parte posteriore di un elemento assai più vasto e grandioso?
Qualche risposta l’abbiamo. O quanto meno qualche idea. Il concetto di
multiverso, uno smisurato grappolo di universi, è ormai molto popolare tra i fisici.
Ipotizzando un numero enorme o persino infinito di realtà parallele, possiamo
spiegare alcune delle stranezze del mondo che ci circonda, in particolare il fatto che
l’universo sembra finemente regolato proprio per permettere la nostra esistenza.
Ma le stranezze non finiscono qui. Alcune teorie fuori dagli schemi, ma di tutto
rispetto dal punto di vista logico, asseriscono che quasi nulla di ciò che crediamo
della realtà è vero. L’universo, secondo queste cosmologie, potrebbe essere un
inganno, la creazione non di una o più divinità, bensì di intelligenze artificiali che
vivono in un mondo per noi impossibile da vedere o da comprendere.
Una risposta popolare al problema della causa iniziale, e per la verità a tutte le
nostre domande sulla natura dell’universo, è naturalmente Dio. Nella maggior parte
del mondo e senza dubbio per la grande maggioranza delle persone, l’esistenza di una
qualche divinità è un punto fermo perfettamente accettabile che consente di
interrompere la catena di domande sulla propria esistenza e su quella del mondo in
cui vivono. Anche nella nostra cosiddetta era laica, molti scienziati continuano a
credere in Dio.
La maggioranza degli scienziati, comunque, non considera più Dio come una
soluzione razionale al problema dell’origine dell’universo. La vecchia teoria del
creazionismo e la sua versione ridotta e semplificata, la teoria del Disegno
Intelligente, sono più che altro riserve dei fondamentalisti cristiani statunitensi, anche
se ci sono segnali preoccupanti di una loro rimonta in Europa. Se la soluzione è Dio,
tanto vale tornare tutti a casa. Non perdiamo tempo, quindi, e passiamo a un altro
argomento.
La cosmologia moderna, com’è ovvio, si sta occupando di questi grandi
interrogativi, ma quali progressi abbiamo fatto dai tempi della Terra piatta e della
Terra sul dorso di una tartaruga? Per quanto riguarda l’origine dell’universo,
disponiamo di un modello notevole, il Big Bang, che sembra spiegare una gran
quantità di cose, ad esempio l’espansione osservata dell’universo, le quantità relative
di idrogeno ed elio presenti, l’esistenza e lo spettro osservato della radiazione
cosmica di fondo (una luminosità opaca, di appena tre gradi sopra lo zero assoluto,
che pervade il cosmo ed è considerata come la brace rimasta dopo il Big Bang).
Il modello del Big Bang, tuttavia, è incompleto e presenta molte lacune. Uno dei
problemi importanti, anche se non riguarda il modello stesso, è il diffuso
fraintendimento concettuale per cui si pensa al Bang come a una gigantesca
esplosione che scaraventò violentemente nello spazio enormi quantità di frammenti,
che in seguito diventarono stelle e galassie. Che cosa accadde è quanto meno non del
tutto chiaro, mentre è evidente che la gigantesca espansione dell’universo, avvenuta
durante i primi millisecondi successivi al Big Bang, fu un’espansione dello
spaziotempo stesso, che coinvolse la materia e l’energia in esso contenute. Forse è
meglio immaginare il Big Bang più come la dilatazione di un palloncino che come
un’esplosione.
Vi sono anche altri problemi, più seri, come ammetterebbero anche i più
entusiastici sostenitori della teoria. Consideriamo uno di questi problemi.
Allontanando il nostro sguardo dalla Terra, vediamo le galassie come erano tanto
tempo fa. La luce proveniente dagli oggetti più lontani che riusciamo a vedere iniziò
il suo viaggio verso la Terra poco dopo l’esplosione, che secondo gli scienziati è
avvenuta 13,7 miliardi di anni fa.
Queste remote galassie primordiali hanno solo qualche centinaio di milioni di anni,
nel momento in cui le osserviamo, quindi dovrebbero contenere solo stelle giovani e
immature (la nostra stella, il Sole, ha più di 4,6 milioni di anni), tuttavia molte di
queste galassie giovani e remote hanno l’aspetto di galassie mature piene di stelle
“vecchie”. Per di più, certe stelle osservate sembrano addirittura più “vecchie”
dell’universo stesso.
Non sono fatti dimostrati, poiché le prove sono molto controverse, ma vale la pena
segnalarli giusto per far vedere che il Big Bang non è un modello del tutto accettato
come invece, ad esempio, l’evoluzione in biologia. A creare problemi è anche la
natura misteriosa di ciò che il Big Bang ha creato. Il fatto che l’universo sia
totalmente dominato dalla materia oscura e dall’energia oscura – entrambe
profondamente inesplicabili – è un «mistero imbarazzante», per citare Bob Nichol,
cosmologo sperimentale dell’Università di Portsmouth, in Inghilterra.
Un tempo si giudicava privo di senso domandarsi che cosa fosse successo “prima”
del Big Bang, poiché si riteneva che lo spazio e il tempo fossero stati creati durante la
grande esplosione; parlare di un “prima”, quindi, era insensato.
Ma questa concezione è stata contestata, in particolare dal fisico teorico di
Cambridge Neil Turok: nel suo universo ekpyrotico (dal greco “scaturito dal fuoco”)
e ciclico, l’esplosione non sarebbe un vero e proprio scoppio, ma sarebbe invece
causata da eventi che si verificano in uno spazio a più dimensioni. Il modello
ekpyrotico non contraddice il Big Bang, ma inserisce la “nostra” esplosione nel
contesto di un insieme molto più vasto di eventi; un punto cruciale è che secondo
questo modello non è insensato parlare di qualcosa di precedente al Big Bang.
In sostanza, la teoria di Turok afferma che il “nostro” universo “galleggia” su una
“membrana” tridimensionale che si muove in uno spazio a più dimensioni. Il Big
Bang, che è corroborato da una gran numero di dati sperimentali, si realizzò quando
la “nostra” membrana, dopo un periodo di contrazione, si scontrò con un’altra
membrana, generando un’immensa quantità di materia e radiazione.
Studiare l’origine dell’universo si sta dimostrando piuttosto costoso. I telescopi
ordinari vanno bene per tornare indietro forse fino a metà strada dall’inizio del tempo,
ma anche per arrivare fin lì sono necessarie macchine enormi e un tipo di strumenti
ottici computerizzati che sono diventati possibili solo nell’ultimo decennio. Ma per
tornare agli inizi, per penetrare letteralmente le nebbie del tempo, sono necessari
telescopi che possono vedere nella regione millimetrica dello spettro delle alte
radiofrequenze.
Sulle Ande cilene – a 5400 metri, un’altitudine che toglie letteralmente il respiro – è
in costruzione il telescopio a terra più costoso del mondo: l’Atacama Large
Millimetre Array (ALMA). Sono iniziati i lavori per realizzare oltre 60 antenne che,
una volta completata la serie, consentiranno agli astronomi di guardare indietro nel
tempo fino alle prime fasi della formazione delle stelle e delle galassie, fino alle
prime centinaia di milioni di anni. L’universo primordiale è ancora un mistero. Non
capiamo, ad esempio, come l’interazione tra materia oscura e materia ordinaria abbia
formato le prime galassie e come l’effetto di tale interazione abbia creato nel corso
del tempo l’universo che osserviamo oggi.
Anche gli acceleratori di particelle consentiranno di indagare la natura
dell’universo primordiale. Le collisioni che avranno luogo nel Large Hadron Collider
del CERN, oltre a servire alla ricerca di particelle di materia oscura, genereranno
energie simili a quelle del Big Bang. È davvero straordinario che in un tunnel sotto il
confine franco-svizzero sia possibile ricreare eventi che si sono verificati quasi 14
miliardi di anni fa.
Uno dei grandi problemi per un profano di cosmologia è capire esattamente che
cosa descrivono i cosmologi quando parlano dell’“universo” – per inciso, si dovrebbe
scrivere con l’iniziale minuscola o maiuscola? In primo luogo, vi è l’universo
osservabile, cioè la sfera di spazio che circonda l’osservatore (nel nostro caso, la
Terra) e contiene tutti i luoghi abbastanza vicini per poter essere osservati. Ciò
significa che l’universo osservabile deve essere abbastanza piccolo da consentire a un
raggio di luce emesso da un qualsiasi oggetto di arrivare sulla Terra in un tempo
inferiore a quello trascorso dal Big Bang fino a oggi (che è senza dubbio finito).
Quindi l’universo osservabile, pur essendo grande, è certamente finito; secondo i
calcoli, ha un raggio di 46,5 miliardi di anni luce (il “bordo” si trova quindi a
444.400.000.000.000.000.000.000 chilometri dalla Terra) e quindi un volume di
3,4 × 10
71
chilometri cubi (è un valore diverso da quello che si potrebbe dedurre in
base alla stima di 13,7 miliardi di anni per l’età dell’universo; il motivo per cui il
diametro dell’universo osservabile non è pari a 27,4 miliardi di anni luce è che la
curvatura dello spaziotempo permette alla luce un’apparente violazione del proprio
limite di velocità). In questa sfera, chiamata Volume di Hubble, si trovano
probabilmente 80-200 miliardi di galassie, e forse un centinaio di miliardi di stelle in
ogni galassia, quindi il numero totale delle stelle arriva a decine di migliaia di
miliardi di miliardi. Il Volume di Hubble si espande, per definizione, alla velocità di
un anno luce all’anno. É davvero enorme, grandioso, e contiene un’incredibile
quantità di sostanza, ma in confronto a tutto ciò che esiste – l’universo vero – forse è
solo una zanzara sulla schiena di un elefante.
Tanto per cominciare, l’universo osservabile è centrato sulla Terra. Ormai nessuno
crede più che la Terra sia al centro del sistema solare né tanto meno al centro
dell’universo o che sia piatta. L’espressione “universo osservabile” è utile per
descrivere la massima estensione di spazio in cui eventi e oggetti possono avere un
collegamento causale con noi. É ovvio che altri osservatori in altre parti dell’universo
avranno una propria “sfera di influenza”. Solamente nella “nostra” regione
spaziotemporale potrebbero esistere più galassie di quelle che teoricamente possiamo
“vedere” (la parola “osservabile” è pura teoria e non presuppone nulla in merito alla
tecnologia, attuale o futura, dei telescopi). Ma anche questo potrebbe non bastare.
Solo pochi anni fa, l’idea stessa che l’universo potesse essere composto da un
grande insieme di inconoscibili realtà parallele era pura fantascienza. Oggi alcuni
fisici del tutto sani di mente ipotizzano l’esistenza di un tale insieme per rendere
conto del fatto imbarazzante che il nostro universo sembra essere finemente regolato
non solo per la vita, ma proprio per il nostro tipo di vita; essendo questa una
caratteristica enormemente improbabile, forse è meglio presumere che l’universo in
cui pensiamo di vivere sia solo una minuscola faccetta di un diamante infinitamente
più vasto e grandioso. In questo multiverso, o megaverso, qualunque cosa è possibile,
tutto è altrettanto probabile e tutto è altrettanto improbabile. Il multiverso affronta
con eleganza il cosiddetto problema antropico.
Esistono diverse varianti dell’ipotesi del multiverso. Una, l’interpretazione dei
molti mondi della meccanica quantistica, per risolvere gli apparenti paradossi della
teoria quantistica suppone che ogni possibile stato successivo a un evento quantistico
si realizzi nel proprio universo. La più importante teoria rivale, la cosiddetta
interpretazione di Copenaghen, in sostanza afferma che è possibile un solo risultato,
che si verifica quando la “funzione d’onda” collassa in un certo stato particolare (ad
esempio, lo stato in cui un elettrone ha una certa posizione). Entrambe le
interpretazioni sono in qualche misura misteriose. L’ipotesi del multiverso fa appello
all’esistenza di miliardi di realtà parallele e l’interpretazione di Copenaghen sembra
attribuire un ruolo speciale all’osservatore. L’obiezione mossa da Einstein fu:
«Davvero pensate che la Luna non sia lassù quando non la state guardando?».
Sono state presentate anche altre spiegazioni del multiverso. I mini-universi
potrebbero esistere in un volume di spazio infinito o pressoché infinito, che si sarebbe
espanso in misura inimmaginabile a causa dell’inflazione cosmica iniziata dal Big
Bang. In questo multiverso esaustivo, la natura infinita degli oggetti rende possibili
tutti i risultati, compreso un numero infinito di riproduzioni molto fedeli (nel
multiverso in questione, esiste una vostra riproduzione fedele, che legge un libro
identico a questo, in un letto, un autobus o un aereo identico al vostro, e che però sta,
mediamente, a una distanza di 10 metri da voi). Poi c’è il multiverso proposto dal
29
10
fisico russo-americano Andrei Linde, che ha ideato un insieme smisurato di universi,
ognuno dei quali è formato da una bolla di spaziotempo in espansione che germoglia
dagli altri. Nella cosmologia di Linde, la nostra “grande” esplosione non è che uno
degli infiniti scoppi minori. Infine, i singoli elementi del multiverso potrebbero essere
simulazioni al computer (come spiegherò più avanti), oppure l’universo potrebbe
essere una combinazione di una o più delle possibilità descritte.
La teoria del multiverso non è affatto universalmente popolare. Secondo Bob
Nichol, dà l’impressione che gli scienziati abbiano «rinunciato a cercare una teoria
del tutto e abbiano semplicemente attribuito a un lancio di dadi i dettagli del nostro
universo». Al livello più essenziale, l’interpretazione dei molti mondi della
meccanica quantistica sembra violare il principio del rasoio di Occam; qui non si
bada a non aumentare inutilmente il numero di entità: si moltiplica tutto e lo si
moltiplica un numero infinito di volte. Ma se gli universi paralleli sono sconcertanti,
un’altra delle idee in circolazione è assolutamente inquietante.
Nick Bostrom è un filosofo dell’università di Oxford e il suo argomento della
simulazione è diventato molto famoso fra gli scienziati, i filosofi e la gente comune,
in parte per la sua sconcertante stravaganza, in parte perché presenta una strana
somiglianza con la trama del popolare film di fantascienza Matrix e soprattutto
perché, pur sembrando del tutto folle, finora ha resistito a tutti i tentativi di
confutazione.
Vediamo in che cosa consiste l’argomento della simulazione. Innanzi tutto è
necessario supporre che un giorno sarà possibile simulare la coscienza in un
computer. Se questa ipotesi è sbagliata, se la coscienza si dimostrerà impossibile da
simulare, l’argomento della simulazione è manifestamente infondato. Se invece la
simulazione di una mente pensante e conscia di sé all’interno di una macchina si
dimostrerà realmente possibile, possiamo procedere con altre ipotesi, meno forti.
In primo luogo, possiamo davvero supporre che un giorno si riuscirà a simulare
una mente cosciente in un computer. Come fa notare Bostrom, la potenza dei
computer raddoppia all’incirca ogni anno e mezzo. In qualche decina d’anni al
massimo, quindi, dovrebbe essere possibile, quanto meno in teoria, costruire
macchine dotate di processori potenti come un cervello umano. E dobbiamo proprio
supporre che si farà. L’argomento procede ipotizzando che in effetti i programmatori
useranno una parte delle capacità dei processori per creare coscienze artificiali
all’interno delle loro macchine, che saranno universi artificiali in cui le coscienze
possono “vivere”, e che questo processo si ripeterà più e più volte (l’effetto si
moltiplicherà rapidamente perché alcuni di questi esseri simulati creeranno loro stessi
altre simulazioni).
Anche questa eventualità sembra quanto meno plausibile, considerando che già
oggi si usano i computer per simulare vari tipi di scenari del mondo reale, dai sistemi
complessi modellati dai meteorologi per formulare previsioni ai giochi in rete con un
gran numero di giocatori, in cui avatar e “personaggi” generati da un computer
popolano mondi immaginari fatti di software.
Nel momento in cui scrivo, la stampa riporta una notizia sulla città di Porcupine. A
quanto pare, nelle strade di Porcupine si sono svolte manifestazioni contro il Front
National, il partito politico francese di estrema destra, che ha aperto nuovi uffici in
città. All’inizio del 2007, le proteste si sono intensificate, al punto che gli attivisti
antinazisti si sono scontrati con i teppisti di estrema destra. Non sembra una notizia
particolarmente interessante fino a quando non si scopre che Porcupine non è un
luogo reale, ma fa parte di un mondo simulato, un universo virtuale on-line che si
chiama Second Life. I mondi on-line non sono una novità – mi pare di ricordarne un
paio in circolazione dalla metà degli anni Novanta, ma si trattava di programmi lenti,
malfatti e terribili da usare e solo il mondo dei geek fanatici li conosceva e se ne
occupava.
É possibile che Second Life sia differente. Il software è notevole e crea un mondo
vivace e pittoresco, e persino elegante, di scenari realistici. Stando ai suoi autori,
Second Life ha più di 2,4 milioni di utenti. Un punto ancora più importante è che sta
diventando qualcosa di più di un semplice gioco al computer. Il Secondo Mondo ha
una propria valuta, i Dollari Linden, che si possono cambiare in dollari veri. In questo
momento, la sola intelligenza in Second Life è quella dei due milioni e mezzo di
utenti – oltre quella del software. Ma non è arrischiato supporre che la situazione
cambierà. Proprio come si fa con gli scenari, si può simulare anche la “personalità”
degli avatar e degli altri esseri con cui gli utenti entrano in contatto. In questo
momento, ed è importante ribadirlo, non sappiamo assolutamente se qualcuno sarà
mai capace di incorporare una consapevolezza cosciente di qualsiasi genere in un
programma. Ma supponiamo che sia possibile, e ipotizziamo altresì che in futuro
qualche piattaforma come Second Life ospiti un gran numero di queste menti
artificiali. A quel punto i computer simuleranno la coscienza milioni, miliardi,
migliaia di miliardi di volte su milioni di macchine.
Per inciso, nell’argomento di Bostrom nulla è soggetto a un limite temporale.
Queste simulazioni coscienti potrebbero essere costruite tra vent’anni, nel terzo
millennio o fra milioni di anni, non ha importanza. Né importa se saranno esseri
umani a creare tutto ciò, oppure alieni che vivono su un altro pianeta, o addirittura
esseri che vivono in un universo parallelo. Tutto ciò che si deve ipotizzare è che in un
certo momento della storia dell’universo, o di tutti gli universi, vengano create
simulazioni computerizzate di vita cosciente.
Ora arriva il punto cruciale. Poiché, per ipotesi, questi avatar computerizzati sono
stati creati più e più volte, è oltremodo verosimile, a causa del puro e semplice peso
della probabilità statistica, che la nostra vita si stia svolgendo in uno di questi mondi
simulati, una specie di Second Life del futuro (ancora più impressionante), che forse
non sta nell’universo “reale”, bensì nella camera di un adolescente (ovviamente, è
sempre possibile che il nostro mondo sia il mondo reale e originale, ma è molto,
molto improbabile). E allora?
Se fosse vero, tutto ciò che pensiamo della realtà sarebbe sbagliato. Il nostro
universo, al pari di noi che ci abitiamo, sarebbe un falso. La vita, di fatto, sarebbe un
gigantesco gioco virtuale. Il nostro mondo sarebbe una versione carica di emozioni,
anche se un poco più violenta, del mondo di un videogioco come Doom o Grand
Theft Auto. Come individui, saremmo ridotti a non essere altro che i giocattoli di
divinità imperfette – divinità che nel nostro caso potrebbero benissimo soffrire per la
delusione di non essere loro stessi gli originali.
É uno scenario profondamente deprimente. É possibile controllarne la validità?
Quel che si può fare è verificare alcuni degli argomenti contrari. Uno è che sarebbe
impossibile essere coscienti e non consapevoli del fatto che la propria situazione non
è reale. Chiaramente non è vero, perché è possibile sognare. Quando sogniamo siamo
in uno stato alterato di coscienza e di solito non sappiamo che stiamo sognando. È
senz’altro possibile sognare e pensare di essere svegli. Ed è anche possibile ingerire,
inalare o iniettarsi sostanze chimiche che hanno una profonda influenza sulla
percezione della realtà. Essere coscienti non garantisce affatto di essere in grado di
capire che cosa è reale.
Mi è stato detto che dal punto di vista matematico l’argomento della simulazione
regge – a patto che le ipotesi sulla tecnologia del computer siano corrette. Lo stesso
Bostrom non presuppone che i computer saranno capaci di essere coscienti; il suo
argomento si fonda semplicemente su ciò che accadrebbe se lo fossero, il che sembra
per lo meno plausibile. Bostrom tiene conto anche della possibilità che nessuna
civiltà sia mai sopravvissuta alla transizione verso la maturità tecnologica, o ancora
che nessuna civiltà svilupperà mai l’interesse a creare una realtà simulata.
Vi sono anche altre strade per verificare la validità dell’argomento.
Presumibilmente, sarebbe molto difficile creare un universo simulato perfetto e
coerente in tutti i suoi parametri – più difficile, quanto meno, rispetto a realizzarne
uno con qualche mattone mancante, con qualche difetto ai bordi. Viviamo in un tale
universo? Bene, si dà il caso che nei nostri modelli migliori dell’universo manchi
proprio qualche mattone piuttosto grosso. Finora si è dimostrato impossibile, ad
esempio, conciliare la fisica quantistica e la relatività.
Questi universi paralleli non siamo in grado di vederli (benché non sia impossibile
immaginare che un giorno potremmo essere capaci di costruire macchine per
rilevarli). E nulla, a parte alcuni stratagemmi matematici, dimostra che viviamo in un
mondo simulato. Quando si considerano realtà alternative, il problema è la scarsità di
prove.
Forse un po’ meno inquietante dell’idea che siamo frutto dell’immaginazione di
qualche macchina è la possibilità che il fondamento ultimo della realtà sia
l’informazione. Come ha detto il fisico quantistico John Archibald Wheeler, «quella
che chiamiamo realtà in ultima analisi emerge dal porre domande a cui si può
rispondere solo sì o no». Possiamo considerare l’universo come un immenso
computer cosmico, dove l’elemento primario, la particella fondamentale non è il
quark o la stringa, ma il bit di informazione? Dopo tutto, tutta la nostra conoscenza
dell’universo è un concentrato di osservazioni e teorie, quindi è informazione.
Il fisico britannico Andrew Liddle, uno dei più importanti pensatori nel settore
della cosmologia, ritiene che i “grandi” interrogativi si possano dividere in tre
categorie. La prima, la categoria A, contiene le domande di cui si ignorano
completamente le risposte né si sa dove si potrebbe andare a cercarle. La categoria B
comprende le domande tali che «si ha una qualche idea teorica di quali potrebbero
essere le risposte, ma non si hanno prove sperimentali né speranze realistiche di
ottenerle». Le domande che appartengono alla categoria C, infine, sono caratterizzate
dal fatto che «si ha qualche idea di quali potrebbero essere le risposte e una certa
speranza di trovare prove sperimentali favorevoli o contrarie a ognuna di queste
idee».
Secondo Liddle, «una risposta all’interrogativo sull’esistenza è il principio
antropico». In sostanza, il principio antropico afferma che le cose devono essere
come sono perché se fossero diverse noi non saremmo qui a osservarle e a porre
domande su di esse: «Il fatto che siamo qui a interrogarci e a fare esperimenti implica
che le cose debbano esistere. Secondo questa concezione, potrebbe benissimo non
esistere nulla, ma è semplicemente impossibile che qualcuno possa porre la domanda
se le cose in effetti non esistono».
La maggior parte dei “grandi interrogativi” sulla cosmologia e sulla realtà, che
sconfinino o meno nel regno della metafisica, si può classificare in una delle tre
categorie di Liddle. Prendiamo ad esempio l’ipotetica arbitrarietà delle leggi della
fisica, uno dei massimi problemi per la scienza. Le leggi fisiche devono essere così
come sono?
«Oggi è molto diffusa la convinzione», spiega Liddle, «che vi sia una certa
arbitrarietà nelle leggi naturali che osserviamo; ad esempio, non esiste alcun motivo
per cui la gravità debba avere l’intensità che ha». È possibile che una parte di questa
arbitrarietà sia dovuta al fatto che le leggi della fisica potrebbero non essere
immutabili e universali. La costante gravitazionale, ad esempio, potrebbe aver avuto
un valore diverso miliardi di anni fa. Le dimensioni del nostro universo visibile sono
limitate dalla distanza che la luce ha potuto percorrere dal momento del Big Bang.
Alcuni cosmologi ritengono che a scale molto grandi le leggi fisiche dell’universo
possano variare. Ad esempio, a una distanza di un googol (10
100
) di anni luce (molto
al di là del nostro orizzonte osservabile), la velocità della luce potrebbe essere
diversa. O le particelle elementari potrebbero avere proprietà diverse. Tra le teorie
candidate a diventare la “teoria unificata”, le favorite sono la teoria delle stringhe e la
sua versione più recente, la teoria M. Alcune interpretazioni della teoria delle stringhe
prevedono che le leggi fisiche siano diverse in zone diverse dello spazio e del tempo.
Può darsi, però, che non basti considerare le leggi. Se scaviamo più a fondo nella
realtà, siamo costretti a domandarci su che cosa siano basate le leggi.
Ma soprattutto, siamo certi che esista una logica di fondo? Una possibilità è che sia
sbagliato pensare che alla base di tutto vi sia l’ordine e non il caos. Sembra che gli
esseri umani abbiano un innato bisogno di imporre un ordine matematico e relazioni
simmetriche e causali a un mondo naturale che potrebbe non funzionare affatto in
quel modo. Nella classificazione di Liddle, la domanda sulla logica di fondo
probabilmente sta tra la categoria B e la categoria C. La teoria delle superstringhe è
considerata una buona candidata come teoria del tutto, da cui si possono derivare
tutte le leggi fisiche. Quindi la si potrebbe considerare come la “logica di fondo” di
tutte queste leggi.
In realtà, non siamo molto più vicini di quanto fossero gli antichi greci a rispondere
alla domanda “perché mai esiste qualcosa e non il nulla?”. La domanda appartiene
ancora decisamente, come afferma Andrew Liddle, alla categoria A: «non abbiamo la
più pallida idea né della risposta né di dove la si potrebbe cercare».
Il grandioso spettacolo di luci del cielo notturno è davvero impressionante; sapere
che tutte quelle stelle che brillano sono soltanto una minuscola percentuale di tutte le
stelle esistenti e che per di più l’insieme di tutte le stelle forse forma solo una piccola
parte di tutto ciò che esiste fa sentire incredibilmente limitati. I filosofi e i teologi si
domandano da secoli che cosa sia la realtà. Ora il testimone è passato alla scienza.
Resta da vedere se gli esperimenti e le osservazioni finiranno per illuminarci più degli
eleganti ragionamenti degli antichi.
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