Dieci domande alle quali la scienza non può (ancora) rispondere. (Parte 1)

TRAMA
Come ha avuto origine la vita? Perché ci sono due sessi? Sono la stessa persona che ero un minuto fa? Di cosa è fatto il 96% dell’universo? Quelle che trovate in questo libro sono le domande che un ragazzino sveglio potrebbe fare al suo insegnante prima di sentirsi dire di non rompere le scatole e di tornare alle sue equazioni. Sono le domande che, poste nel modo giusto, potrebbero dare filo da torcere anche agli esperti più navigati. La scienza, ci dice Michael Hanlon, è stata, è tuttora e sarà in futuro un continuo percorso di ricerca. Se oggi siamo in grado di dare una risposta chiara ed esauriente a una miriade di problemi che appena un secolo fa erano considerati pura fantascienza, ne restano ancora infiniti da risolvere. Problemi che nella maggior parte dei casi, ad esempio l’indagine sul concetto di tempo, presuppongono un approccio trasversale e multidisciplinare e una capacità di sintesi che talvolta non si sposano con l’estrema specializzazione che caratterizza la ricerca scientifica odierna. Le dieci domande di Hanlon, se da un lato stuzzicano la curiosità del lettore, dall’altro ne stimolano la riflessione con un avvertimento: quando vi sedete soddisfatti sulla sommità di una conoscenza acquisita, è già ora di rimettersi in piedi e ripartire. Ma non è proprio questo il bello?

Michael Hanlon è uno dei più apprezzati scrittori inglesi di scienza. Collabora con numerosi quotidiani e partecipa a trasmissioni radiofoniche e televisive. Tra i libri di divulgazione scientifica che portano la sua firma ricordiamo The Science of the Hitchhiker’s Guide to the Galaxy (MacMillan, 2005) e The Worlds of Galileo (Constable, 2001).

Le cose che non sappiamo sono moltissime. Ve ne presento dieci, ma ce ne sono centinaia. La scienza ha il compito di trovare le risposte, e senza dubbio le troverà. L’unico “problema” è che a quel punto i picchi dell’ignoto saranno alti e distanti esattamente come quando pensavamo che mancasse solo un passo alla fine della salita.
                                                                                                                                                Michael Hanlon
Guida ai territori inesplorati della scienza


Indice:
-Ringraziamenti
-Introduzione

-Capitolo 1:   Fido è uno zombie?
-Capitolo 2: Perché il tempo è così misterioso?
-Capitolo 3: Per piacere, posso vivere in eterno?
-Capitolo 4 : Che cosa abbiamo intenzione di fare con gli stupidi?
-Capitolo 5: Che cos’è il lato oscuro?
-Capitolo 6 : L’universo è vivo?
-Capitolo 7: Sono la stessa persona che ero un minuto fa?
-Capitolo 8: Perché siamo tutti così grassi… e ha davvero importanza?
-Capitolo 9: Possiamo davvero essere certi che il paranormale sia una sciocchezza?
Capitolo 10 : Che cos’è effettivamente la realtà?

Ringraziamenti
Sara Abdulla, la mia editor della Macmillan, è sempre stata una fonte di
ispirazione, di incoraggiamento e di tanto in tanto, all’avvicinarsi delle scadenze, di
costrizione. Devo ringraziare tutti gli scienziati, gli scrittori e gli addetti stampa che
mi hanno procurato citazioni e spiegazioni utili e che sono andati a pescare nei loro
database articoli di cui avevo completamente dimenticato il titolo, la data di
pubblicazione e gli autori; ringrazio in particolare Claire Bowles di “New Scientist”,
Ruth Francis di “Nature”, Peter Barrat del Particle Physics and Astronomy Research
Council e tutto il personale dell’American Association for the Advancement of
Science.
Devo ringraziare il mio datore di lavoro, il “Daily Mail”, che mi concede lo spazio
e la libertà per sviluppare il mio interesse per la scienza in tutte le sue sfaccettature e,
soprattutto, la mia compagna, Elena Seymenliyska, che ha sopportato un’altra caterva
di serate e fine settimana da me dedicati al completamento di un altro libro.

Introduzione
Nella fisica non c’è più niente da scoprire. Da fare restano soltanto misurazioni
sempre più precise, LORD KELVIN, 1900
Come ci sembrano ridicoli oggi quegli sciocchi vittoriani! Credevano di sapere
tutto. Per loro l’universo era una sorta di posticino ben ordinato composto da pochi
milioni di stelle. I pianeti rimanevano per aria ancorati alle ordinate sottane di
Newton, e tutto il cosmo funzionava come un orologio svizzero.
Qui sulla Terra, sapevano che la vita era iniziata in una piccola pozza calda e che la
sua successiva evoluzione era governata dalla grandiosa tesi del signor Darwin. La
materia era fatta di atomi, di un centinaio di varietà diverse, che si comportavano
come versioni in miniatura dei pianeti: minuscole palle da biliardo dal
comportamento regolare. La scienza si avvicinava alla fine – restava soltanto da
mettere i trattini sulle “t” e i puntini sulle “i”. Stavamo per raggiungere il “culmine
della conoscenza completa”.
Come si è visto, era un culmine fasullo. All’inizio del Novecento, tutta una serie di
irritanti intuizioni geniali mise ripetutamente i bastoni fra le ruote della scienza, tanto
da costringerci a fare a pezzi pressappoco tutto ciò che credevamo di sapere e a
ricominciare da capo.
Oggi sappiamo che l’universo è decisamente più grande, e più antico, di quanto
immaginassero Lord Kelvin e i suoi contemporanei. Ora sappiamo perché le stelle
brillano, di che cosa sono fatte e come si evolvono. Abbiamo determinato l’età della
Terra e dei pianeti e abbiamo scoperto o dedotto alcuni fantastici mostri sconosciuti
ai vittoriani: i quasar, le stelle di neutroni e i buchi neri.
Abbiamo confermato le teorie di Darwin (in più di un secolo non sono stati
pubblicati articoli seri che mettano in dubbio la fondamentale realtà dell’evoluzione)
e ora abbiamo un meccanismo, la genetica, che spiega come viene copiata
l’informazione da una generazione all’altra. Oggi sappiamo che l’orologio di Newton,
pur essendo una descrizione eccezionalmente accurata dei nostri immediati dintorni,
alle scale cosmiche e a velocità estreme non funziona. Einstein ha messo in relazione
lo spazio e il tempo, l’accelerazione e la gravità, la massa e l’energia in modo
meraviglioso e controintuitivo.
Si è dimostrato che gli atomi, in precedenza ritenuti indivisibili, sono composti da
un serraglio bizzarro, problematico e all’apparenza francamente casuale di particelle
fondamentali. E alla scala degli atomi gli oggetti hanno un comportamento diverso
rispetto al mondo del grande, del pesante e del veloce descritto da Einstein. A quanto
pare, l’universo può essere davvero strano – a volte, misterioso. Le particelle possono
influenzare altre particelle a distanze di miliardi di anni luce, istantaneamente. Forse
esistono molte altre dimensioni oltre alle quattro, tre dello spazio e una del tempo, a
noi familiari. Se sono in movimento, gli orologi vanno più lentamente.
La scienza ha formulato alcune teorie sul funzionamento della mente ed è riuscita a
penetrare la psicologia umana. Con la nostra medicina abbiamo eliminato molte delle
grandi cause di morte dell’umanità e siamo in procinto di eliminarne altre. In più,
abbiamo fatto il primo passo verso l’esplorazione dell’universo vicino. Una parte
della nostra tecnologia è così avanzata che, per citare Arthur Clarke, agli occhi delle
persone vissute cent’anni fa sarebbe indistinguibile dalla magia.
Che altro c’è da conoscere, allora? Molto – e questo è l’argomento del presente
libro. Non proporrò grandi soluzioni, ma solo qualche interrogativo importante (e
altri di minor conto) su temi che spesso la scienza ha eluso o di fronte ai quali si è
semplicemente afflosciata: sfide che sono state considerate troppo grandi, per lo
meno fino a poco tempo fa.
Forse la nostra hybris è altrettanto grande, o forse ancora più grande, di quella dei
vittoriani. Non perché sappiamo di meno, ma forse proprio perché sappiamo di più.
L’enorme e ininterrotta accelerazione della scoperta scientifica e del progresso
tecnologico che si è avuta nel secolo scorso, specie a partire dalla fine della Seconda
guerra mondiale, ha portato alla convinzione generale che la “grande guerra contro
l’ignoranza”- la cui ultima fase iniziò con l’Illuminismo, quasi trecento anni fa – non
sia molto lontana dalla conclusione.
Dopo tutto, abbiamo tracciato la mappa del genoma umano e scomposto gli atomi
nei loro elementi costitutivi. Nell’arco di qualche anno potremmo arrivare a
formulare una grandiosa teoria del tutto, che unifichi le forze fondamentali e riconcili
il mondo quantistico con la relatività. Siamo sul punto di capire quali sono i
componenti elementari della vita e a quanto pare ogni settimana una nuova scoperta
degli astronomi rivoluziona la nostra interpretazione dell’universo. La nostra
tecnologia sembra davvero magica – quanto sarebbe difficile spiegare il web a Lord
Kelvin?
Si possono fare anche altre considerazioni, tuttavia. Continuiamo a non avere idea,
proprio come Lord Kelvin, di che cosa sia fatto l’universo (o quanto meno la maggior
parte dell’universo). I vittoriani presumevano che fosse composto soltanto da atomi –
quanto si sbagliavano! Per lo più sembra costituito da due sostanze misteriose, la
materia oscura e l’energia oscura, sulla cui natura possiamo solo formulare ipotesi. La
materia ordinaria (altrimenti detta materia barionica – il buon vecchio idrogeno, voi e
me, Nettuno e il mio tavolo da pranzo) non è che un elemento secondario. La
maggior parte di ciò che costituisce l’universo è invisibile e non abbiamo la minima
idea di che cosa sia – solo qualche congettura piuttosto vaga.
Abbiamo una teoria, o piuttosto un modello, dell’origine del nostro universo, il Big
Bang, però in realtà non capiamo che cosa sia stato a esplodere, come sia esploso e
che cosa sia stato ad accendere la miccia. Non sappiamo che cosa sia successo prima
dell’inizio del nostro universo e neppure se abbia senso porsi questa domanda. Non
sappiamo neanche se ciò che consideriamo come il nostro universo sia veramente
tutto ciò che esiste. L’ipotesi vittoriana che la Via Lattea sia tutto ciò che esiste era
sbagliata di diversi ordini di grandezza.
Può darsi che anche noi sottovalutiamo di molti ordini di grandezza la scala di ciò
che studiamo, se consideriamo che oggi la fisica prende in seria considerazione l’idea
del multiverso, un insieme vastissimo, anzi infinito, di universi che potrebbe essere
necessario per risolvere uno dei grandi misteri: perché il nostro universo sembra
essere finemente regolato per permettere la nostra esistenza? Può darsi che quel che
vediamo nel cielo di notte, tutta la magnificenza dell’universo – le galassie vortice, i
quasar e i vuoti senza fine dello spazio intergalattico – non sia altro che una bollicina
sul retro di qualcosa di infinitamente più grande. La vera natura della realtà continua
a essere poco chiara.
Altri misteri: non sappiamo come sia iniziata la vita sulla Terra né se sia mai
iniziata altrove. Probabilmente, non siamo più vicini a comprendere la vera natura
della mente umana di quanto fossero Platone e Aristotele. Non abbiamo idea di come
faccia esattamente una massa di gelatina grigia di poco più di un chilo a concepire
Romeo e Giulietta, ad apprezzare un bel tramonto o a provare un dolore angoscioso.
La natura del tempo ci sfugge e il processo di invecchiamento è ancora un mistero.
In realtà, ancora non sappiamo perché invecchiamo né perché il processo ha la
velocità che ha né se mai riusciremo a contrastarlo.
Molti altri aspetti della natura umana continuano a essere sconcertanti. Come
specie, sembra che stiamo cambiando forma – letteralmente. L’epidemia di obesità
sembra un concetto semplice, ma in realtà presenta alcuni lati misteriosi. E i nostri
politici ed esperti di scienze sociali evitano decisamente di affrontare, e persino di
riconoscere, quelle differenze fondamentali tra individui che causano tanto dolore e
afflizione.
La mente delle altre creature viventi è ancora un mistero profondo, anche se più ne
approfondiamo la conoscenza, più siamo spinti a concludere che il grande divario tra
gli esseri umani e gli animali potrebbe non essere grande come pensavamo. Ciò che
sappiamo è davvero strabiliante, ma più riflettiamo su ciò che non sappiamo, più
siamo obbligati a concludere che piuttosto che esserci tuffati nel mare della
conoscenza, ci siamo solo bagnati la punta dei piedi.
Le pure e semplici dimensioni di ciò che ignoriamo fanno sembrare scarse le nostre
conoscenze, ma forse al lettore viene da pensare altrimenti leggendo i giornali.
Stando a quel che dicono le riviste, i quotidiani e i periodici, e anche i programmi
televisivi che spesso sono riusciti a divulgare con intelligenza alcuni dei concetti più
difficili, è legittimo pensare che la maggior parte della scienza sia “cosa certa”.
La scienza ora dispone di un proprio gruppo di portavoce e commentatori, addetti
stampa, spin doctor professionisti e siti internet, e naturalmente di un intero esercito
di giornalisti specializzati nel settore. In Gran Bretagna, le persone che come me si
guadagnano da vivere scrivendo di scienza per i giornali, il web e le riviste, o
realizzando programmi televisivi e radiofonici, saranno un centinaio. Cinquant’anni
fa erano sì e no una decina.
Sono necessarie perché spesso gli scienziati sono stati pessimi comunicatori
riguardo alle proprie attività (com’è noto, Isaac Newton, forse la più grande mente di
tutta la storia, era tanto incapace di comunicare che spesso le sue lezioni erano
seguite da non più di un paio di studenti annoiati).
Ancora oggi molti scienziati non possiedono un telefono cellulare (o non hanno la
minima idea di come si usa) e controllano i messaggi di posta elettronica una volta
alla settimana. Ne conosco uno o due che usano ancora il fax. Scienziati come questi
sono sempre esistiti, ma la differenza è che oggi si avvalgono di uno spin doctor e di
conseguenza la scienza è diventata un po’ com’era un tempo la politica, un vasto
oceano di opinioni mutevoli, ondate di argomenti che diventano di moda e poi
scompaiono (questa settimana è il cambiamento climatico, la prossima inizieremo a
preoccuparci di nuovo degli OGM nel cibo – aspetta un momento… probabilmente
siamo molto in ritardo con l’allarme per l’influenza).
Per tali ragioni, i ricercatori e le loro imprese fanno notizia a livello mondiale. Una
volta il direttore di un giornale mi ha detto: «È fortunato a scrivere di scienza… un
tempo non si parlava mai di scienza, ci si occupava soltanto di crimine, politica e
sindacati. Oggi nessuno è interessato a tutta quella roba, si parla solo di riscaldamento
globale, pecore clonate e vita su Marte». E aveva ragione. La scienza è diventata
interessante – si è resa interessante – con la spontanea collaborazione di gente che
parla a ruota libera come me. Ma c’è un problema.
Tutti questi reportage, nel tentativo di informare meglio il pubblico, in realtà
peggiorano la situazione. Mentre un tempo le grandi scoperte impiegavano settimane
o mesi prima di arrivare all’attenzione del pubblico (nel 1952, la doppia elica del
DNA comparve sui giornali quasi sei mesi dopo la sua scoperta), oggi ogni minimo
dettaglio delle ricerche scientifiche viene riferito come se fosse l’ultima parola sulla
questione e come se l’enigma fosse stato risolto. “Nature”, che presentò la storia del
DNA, oggi ha tutta una serie di collaboratori a tempo pieno che una volta alla
settimana decidono quali sono le storie che fanno abbastanza notizia e di cui pertanto
vale la pena che i cronisti si occupino.
Il giornalismo medico, in particolare, risente di alcuni spiacevoli effetti collaterali
dell’eccesso di informazione. Nei decenni passati, le notizie di trial clinici e di ampi
studi realizzati per valutare gli effetti di fattori come il tipo di alimentazione e lo stile
di vita impiegavano molto tempo a trapelare. Spesso ciò significava semplicemente
che eravamo malinformati; numerosi scienziati erano abbastanza convinti del
collegamento tra il fumo e il tumore ai polmoni molto prima della pubblicazione
dello studio definitivo di Richard Doll, nel 1954 (in realtà, i primi a dimostrare il
collegamento furono gli scienziati nazisti, negli anni Trenta, ma tale primato, forse
comprensibilmente, non è ancora del tutto riconosciuto), eppure è passato molto
tempo prima che il messaggio che il fumo può uccidere iniziasse a circolare.
Al giorno d’oggi solo un pallido indizio di qualcosa di vasta portata come lo studio
di Doll porterebbe a un migliaio di articoli sulle riviste e di titoli sulle prime pagine
dei giornali e probabilmente a diverse richieste per l’immediata messa al bando del
tabacco.
Il lentissimo passaggio delle informazioni dal dominio scientifico a quello
pubblico aveva un aspetto positivo: si realizzava qualcosa di simile a un processo
informale di revisione da parte degli esperti – e quindi venivano segnalati solo gli
studi davvero significativi, che generavano risultati davvero significativi (in termini
statistici).
Al giorno d’oggi, se somministro l’additivo x a una decina di persone e scopro un
lievissimo effetto sulla loro salute, mi basta telefonare ai pennivendoli giusti per
ottenere su due piedi la richiesta di bandire immediatamente x. La prossima volta che
vi capiterà di leggere che una sostanza o un’attività x è stata “messa in relazione” con
la malattia y, siate sospettosi – molto sospettosi. Mentre scrivo queste righe, ho sotto
gli occhi un titolo di un giornale di Londra: Bere Cola danneggia le ossa. Non
abbiamo motivo di dubitare dei risultati di questa ricerca e tuttavia non dubitiamo
neanche che nel giro di pochi mesi (o settimane, o anni) arriverà un altro studio che
mostrerà un collegamento statistico tra il consumo di bevande gassate e buone
condizioni di salute, forse anche delle ossa (il caffè sembra passare dalla categoria di
bevanda salutare a quella di bevanda dannosa in modo ciclico e regolare ogni tre
mesi; forse è un fenomeno controllato da qualche strana legge fisica). L’effetto di
questi titoli – e delle ricerche che li generano – è l’aumento del ronzio di fondo di
pseudoconoscenze, l’equivalente moderno dei racconti fantastici da vecchie comari in
cui in un certo senso non abbiamo mai creduto, ma che abbiamo citato all’infinito.
Anche se oggi ridiamo di certi vecchi “consigli” (evitare i cibi “indigesti”, mettere
il burro su una bruciatura ed evitare la masturbazione per non rischiare di perdere la
vista o la ragione) e deridiamo l’antico terrore dei “colpi di freddo”, noi stessi
abbiamo creato un nuovo folklore – “troppo tè ha un effetto disidratante” (falso),
“tutto il grasso è dannoso” (senza un po’ di grasso moriremmo), “l’acqua minerale è
più pura e più sicura dell’acqua del rubinetto” (sciocchezze) e così via. La “notizia”
può essere buona o cattiva, naturalmente. Sono andato a pescare alcuni articoli recenti
sulle malattie cardiache, il cancro e i colpi apoplettici e ho scoperto che, se vogliamo
credere a tutti questi “studi”, consumando la giusta quantità di manghi, caffè, vino
rosso, broccoli, olio di pesce e riso selvatico, e andando a vivere nella regione giusta
del Giappone, potrei aspettarmi di vivere fino al XXIII secolo. D’altro canto,
leggendo un’altra serie di articoli scoprirei che, con il mio stile di vita, dovrei essere
morto vent’anni fa.
Va detto che l’illusione del progresso non è certamente circoscritta al settore della
salute. La “grande teoria del tutto”, una teoria della fisica, è in circolazione da almeno
vent’anni – anzi, certamente da molto più tempo. Una miriade di libri pubblicati
nell’ultimo quarto di secolo dichiara con una certa sicurezza che, anche se per il
momento non ce l’abbiamo ancora fatta, questa o quella teoria unificherà le forze,
concilierà il serraglio di particelle fondamentali e porterà a termine la lunga guerra tra
relatività e fisica quantistica. Ma – sorpresa, sorpresa – dopo una serie di false vette,
l’obiettivo della grande teoria del tutto è lontano esattamente come prima.
A volte l’illusione del progresso ha gravi ripercussioni politiche e sociali. Il
cambiamento climatico non è solo un problema scientifico; è anche una questione di
grande interesse politico. Da un canto, la maggioranza degli esperti è d’accordo sul
fatto che le attività umane, soprattutto la combustione di carburanti fossili, stanno
dando un grande e pericoloso contributo al riscaldamento globale che si misura fin
dal 1900. A quanto pare, ogni mese, ogni settimana, arriva una nuova prova che
sembra confermare questa tesi. E sulla correttezza dell’opinione dominante ci sono
pochi dubbi: stiamo proprio riscaldando il pianeta.
Ma naturalmente la questione non è così semplice. Come ha sottolineato Boris
Johnson, il divertente politico e giornalista inglese, il riscaldamento globale è una di
quelle cose in cui si crede o non si crede e tutto il dibattito sul cambiamento
climatico sa un po’ di fede religiosa. Fede e scienza sono considerate incompatibili.
Non si crede nella gravità, nelle leggi di Keplero o nel DNA; sono cose che esistono
(o, naturalmente, che non esistono). Se salto giù da un terrazzo, il fatto di non
riconoscere la validità delle leggi di Newton non mi aiuterà a non fracassarmi le ossa.
La scienza non è mai stata così affascinante né così produttiva e attrae le menti più
brillanti della nostra generazione. Qualcosa è andato perso, tuttavia: la pazzia dei
tempi passati. Perché oggi la scienza, oltre a essere brillante e a infondere ispirazione,
è un’industria. Gli scienziati lavorano in squadra, producono scoperte e risultati che
hanno un carattere incrementale e la loro stessa sussistenza dipende dalla rapidità con
cui i loro lavori superano la revisione da parte di un’équipe di colleghi e arrivano alla
pubblicazione. La revisione paritaria è un processo utile e corretto ed è difficile
concepirne uno migliore, ma lascia poco spazio ai ricercatori stravaganti ed
eccentrici. L’elitarismo e la natura ad hoc della filosofia naturale, pur avendo
condotto a numerosi vicoli ciechi, hanno prodotto ispirazione e idee brillanti e
geniali. L’epico viaggio di Darwin intorno al mondo, negli anni Trenta
dell’Ottocento, portò a una delle intuizioni più geniali e importanti di tutta la storia
della scienza, ma leggendo i suoi taccuini ci si rende conto di quanto fosse caotica, in
base ai criteri moderni, tutta l’impresa. Tanto per cominciare, impiegarono diverse
settimane solo per far uscire il Beagle dal porto di Plymouth. E poi non riuscirono a
sbarcare a Tenerife perché era in vigore la quarantena per le navi in arrivo. Ora,
naturalmente, qualsiasi genere di spedizione potrebbe contare su un esercito di
organizzatori. Oggi i “cani sciolti” se la passano male nella scienza, come mai prima.
Gli autori di teorie che mettono in discussione l’opinione dominante tendono a essere
ridicolizzati, spesso ingiustamente.
Anche oggi, tuttavia, esistono pensatori liberi che a volte riescono ad aggirare
l’opprimente influenza dell’opinione dominante, come Barry Marshall, che ha
scoperto che le ulcere allo stomaco non sono provocate dallo stress, ma da
un’infezione, e Stanley Prusiner, che ha dimostrato che l’encefalopatia spongiforme
degli ovini e la malattia di Creutzfeldt-Jakob sono causate da una proteina detta
prione, un agente infettivo in precedenza sconosciuto. Queste isole di magnificenza
intellettuale punteggiano un mare piuttosto piatto di conformismo.
Il problema dei grandi interrogativi – sull’origine della vita, ad esempio – è
l’estrema difficoltà di ottenere fondi di ricerca per cercare le risposte. Una delle
caratteristiche delle domande esaminate in questo libro è che spesso non
appartengono in modo chiaro a un’unica disciplina; per comprendere realmente il
tempo, ad esempio, probabilmente è necessario essere allo stesso tempo un fisico,
uno psicologo cognitivo e un filosofo.
Per risolvere il problema delle origini della vita è necessario essere esperti di
geologia, di astronomia, forse di cosmologia (dando per scontato che non sia
necessaria la teologia) e di biochimica. Se qualcuno dichiara di voler indagare i
fenomeni paranormali o la natura della realtà, gli sarà molto difficile ottenere
qualsiasi tipo di finanziamento. Ovviamente, tanti si stanno di fatto occupando di
questi problemi, ma gli studiosi che hanno una cultura enciclopedica sono
relativamente pochi e tendono a rimanere ai margini.
Oggi la specializzazione e la correttezza scientifica sono tutto. La corrente
scientifica principale è incanalata, concentrata e specializzata, tanto che un
biochimico che studi la struttura di un certo tipo di proteina molto probabilmente non
sa granché delle ricerche più recenti sui grassi o i carboidrati, poniamo, per non
parlare di qualsiasi argomento al di là della biochimica.
Charles Darwin aveva una conoscenza operativa dei settori di punta della geologia,
della biologia e della meteorologia e padroneggiava le loro varie sottodiscipline. Alla
metà dell’Ottocento era possibile, oggi invece la complessità, e il linguaggio tecnico,
sono tali che uno scienziato come Darwin non potrebbe proprio esistere. E se
esistesse non otterrebbe mai un finanziamento per salpare con il Beagle.
A volte il mistero è dovuto al fatto che un argomento è davvero difficile. Certi
misteri, però, alla fin fine potrebbero dimostrare di non essere tali. Talvolta la scienza
perde molto tempo a inseguire gli arcobaleni. Prendiamo la coscienza, ad esempio. Il
problema di che cosa sia a rendere consapevole la mente è stato deliberatamente
ignorato per decenni e invece oggi occupa alcune delle menti migliori del pianeta. La
coscienza suscita un interesse profondo. Ma non tutti sono convinti che la sensazione
di consapevolezza, apparentemente così misteriosa e significativa, abbia davvero
importanza. Per la verità, conosco un insigne scienziato che trova sconveniente
discutere della coscienza. Questi discorsi, dice, «portano inevitabilmente soltanto a
un mucchio di congetture stupide». Forse, solo forse, ciò che chiamiamo “coscienza”
in realtà non esiste…
Uno dei misteri considerati in questo libro è il tempo. Il tempo è qualcosa che tutti
diamo per scontato, ma è davvero una bestia molto sfuggente se proviamo a definirlo.
Considerare spazio e tempo congiuntamente come una sorta di trama che tiene unito
l’universo è un modo assai utile di accostarsi ai problemi dal punto di vista
matematico. Ma chiarisce in qualche modo ciò che è in realtà il tempo?
È possibile riuscire a farlo scomparire, con un soffio di logica, eliminando tutte
quelle piccole “t” dalle equazioni?
Probabilmente no, ma l’elenco degli scienziati che hanno studiato cose inesistenti è
molto lungo. Nell’Ottocento, alcuni psicologi americani studiarono una malattia che
causava grande preoccupazione, specie nelle regioni meridionali del paese. Gli effetti
di questa malattia, chiamata drapetomania, erano pericolosi ed economicamente
negativi. La drapetomania, dovete sapere, era l’«impulso incontrollabile di un negro a
evadere dalla schiavitù». Gli schiavi, oltre a soffrire di questa follia irrazionale,
potevano essere colpiti anche da dysesthesia aethiopica, ovvero disobbedienza.
La drapetomania fu diagnosticata per la prima volta da Samuel Cartwright, un
medico della Louisiana, che riuscì a far citare la sua nuova malattia dal “New Orleans
Medical and Surgical Journal”. La sua terapia preferita per questa malattia, come per
la dysesthesia, era molto semplice: una buona bastonata. Oggi questo esempio
ridicolo dì razzismo legittimato ci provoca imbarazzo, ma siamo sicuri che ogni
fenomeno che diamo per scontato e di cui discutiamo sia più reale della
drapetomania? Quali altri punti del canone scientifico potrebbero essere soltanto un
elemento culturale, un riflesso del pensiero del nostro tempo?
A pensarci bene, molti altri – non solo il tempo e la coscienza. Non tutti sono
convinti che la “materia oscura” e l’“energia oscura” siano reali, ad esempio. Forse le
equazioni sono sbagliate, o c’è qualche errore nelle osservazioni, e stiamo dando la
caccia allo Snark.
Fino a che punto il mondo elegante descritto dai fisici quantistici rappresenta la
realtà o invece un suo modello matematico? Non è del tutto chiaro. La fisica moderna
è piena di descrizioni e modelli meravigliosi della realtà e questo è un problema. Lo
spaziotempo si contorce e si distende come fosse di gomma. L’energia oscura tende e
fa a pezzi la trama stessa della realtà. Minuscole stringhe in vibrazione, cunicoli
gravitazionali e scontri tra brane fanno nascere interi universi. Quante di queste cose
sono reali, com’era reale la mela di Newton, e quante sono solo astrazioni,
impossibili da immaginare se non attraverso la lente delle equazioni e delle
dimostrazioni? In particolare, oggi purtroppo lo strano mondo della fisica moderna è
così surreale, così controintuitivo, da risultare indecifrabile per le persone comuni (si
pensi invece alle opere di Darwin e persino di Newton, che all’epoca potevano essere
comprese, quanto meno nei loro tratti essenziali, da milioni di persone istruite).
Questo libro si concentra su dieci domande. Non è un elenco completo dei massimi
interrogativi scientifici senza risposta; è invece un’istantanea, scattata in un momento
particolare, degli argomenti che mi sconcertano più di altri. Alcune domande sono
ovvie, come quelle sulla natura del tempo e sul mistero della realtà. Altre sono
comprese nell’elenco semplicemente perché le trovo affascinanti. L’epidemia di
obesità forse non rivela nulla di fondamentale circa la natura dell’universo, però
mette in luce molti aspetti affascinanti della vita sulla Terra al giorno d’oggi e delle
nostre ossessioni.
Qualche grande interrogativo non è citato. L’enigma della coscienza è stato
dibattuto fino allo sfinimento e sono propenso a concordare con l’eminente biologo
britannico citato poc’anzi. Ciò nondimeno, è un argomento oltremodo interessante.
L’ho affrontato, un po’ indirettamente, trattando la consapevolezza degli animali e la
continuità dell’esistenza.
La fisica moderna è un vero incubo. Forse il suo mistero più grande, e finora senza
risposta, è: “Che cosa accade esattamente nella fisica quantistica?”. Com’è noto, Paul
Dirac rispose: «Tacete e calcolate!», ma questa naturalmente è una risposta
inaccettabile.
Ad esempio: quando due elettroni, separati da una distanza enorme, sono
entangled, il che significa che quel che capita a uno ha un effetto istantaneo sull’altro,
che cosa accade esattamente? Come fa l’informazione a viaggiare a una velocità
superiore a quella della luce (possibilità ovviamente proibita)? Una delle
interpretazioni è che in qualche modo venga inviato un “messaggio” all’indietro nel
tempo. Un’altra è che le particelle “comunichino” facendo riferimento a una
“funzione d’onda universale” che si estende dappertutto.
Il ruolo della mente cosciente è un mistero profondo. Com’è che l’atto di osservare
influenza ciò che viene osservato, come sostengono fermamente alcune
interpretazioni della fisica quantistica? In base a una di queste, inoltre, ogni volta che
avviene un evento quantistico si crea un intero universo che tiene conto di tutti i
risultati statisticamente possibili. Bene, ma da dove arrivano tutti questi universi?
Che altro manca al mio elenco? Anche se considero la possibilità che l’universo
ospiti una miriade di forme di vita, ho lasciato ad altri tutto l’enigma degli UFO. Ai
miei occhi, il mistero più profondo è l’esistenza della vita. L’esistenza di una vita
intelligente è forse la ciliegina sulla torta, anche se sarebbe una torta estremamente
interessante se riuscissimo a trovarla. In ogni caso, può darsi che per trovare forme di
vita intelligente non si debba cercare tanto lontano; più gli scienziati indagano i
meccanismi interni del cervello animale, più i nostri cugini sembrano salire nella
classifica delle capacità intellettuali.
Esistono alcuni aspetti fondamentali di noi stessi che ancora non capiamo. Lo
scopo del sonno (e dei sogni) continua a essere un mistero, anche se un anno sì e un
anno no viene presentata una nuova teoria. La scienza medica moderna è un trionfo e
tuttavia l’imbarazzante verità è che in gran parte non comprendiamo realmente come
funziona. Il nostro cervello è ancora profondamente misterioso e non solo perché
genera l’esperienza cosciente.
Non sappiamo come né dove sono memorizzati i ricordi. E non sappiamo se il
libero arbitrio è un’illusione. Dimostrare che lo è e farlo capire a tutti sarebbe uno dei
massimi affronti alla dignità umana da quando abbiamo capito che non siamo stati
creati a immagine di Dio, ma ciò non significa che quest’ultima ipotesi non sia quasi
certamente vera.
Le cose che non sappiamo sono moltissime. Ve ne presento dieci, ma ce ne sono a
centinaia. La scienza ha il compito di trovare le risposte e senza dubbio le troverà.
L’unico problema è che, altrettanto indubbiamente, quando chiariremo questo
piccolo gruppo di enigmi, il culmine della conoscenza che avremo raggiunto sarà
fasullo proprio come quello raggiunto da Lord Kelvin e i picchi dell’ignoto saranno
alti e distanti esattamente come quando pensavamo erroneamente che mancasse solo
un passo alla fine della salita.

Capitolo 1
Fido è uno zombie?
Qualche anno fa, ebbi la grande fortuna di trovarmi a più di tremila metri d’altezza
sulle pendici di un vulcano, in Ruanda. Questo paese dell’Africa centrale è davvero
uno dei luoghi più incantevoli, insoliti e surreali della Terra. Penso di non essere mai
stato in nessun altro luogo, di certo non in Africa, che sembrasse più sereno, ridente e
pacifico. Eppure, soltanto una decina d’anni prima della mia visita, quel paese era
stato divorato da un accesso animale di sete di sangue che storicamente quasi non ha
pari in tutto il mondo.
Il Ruanda non è solo una storia di orrore: nel “paese delle mille colline” si trovano
alcuni dei paesaggi più strani e pittoreschi di tutto il pianeta. Insieme ad alcune
nazioni confinanti, il Ruanda è l’habitat di uno tra gli animali più magnifici al mondo:
il leggendario gorilla di montagna, una specie molto vicina all’estinzione.
Ed era per i gorilla che mi trovavo lì. Stavo scrivendo un articolo per il mio
giornale, per raccontare come questi enormi animali fossero riusciti a far fronte a
decenni di guerra civile e conflitti nel loro ambiente naturale. Correva voce che i
cacciatori avessero ucciso e mangiato gli ultimi esemplari di questa magnifica specie,
il cui numero si era ridotto a poche centinaia. Da quel che ho sentito dire, è probabile
che il grande gorilla di montagna stia proprio per scomparire.
I gorilla di montagna, come i gorilla di pianura loro cugini, gli scimpanzé, i
bonobo, gli oranghi delle Indie orientali e, naturalmente, gli esseri umani,
costituiscono il gruppo delle grandi scimmie antropomorfe. Noi andiamo a testa alta
come se fossimo in cima all’albero dell’evoluzione, anche se non meritiamo un tale
riconoscimento. Ogni specie ancora esistente è “in cima” al ramo che l’ha generata,
quale che sia. Non siamo più “progrediti” del modestissimo batterio Escherichia coli,
anche se, come i gorilla e gli scimpanzé, siamo senz’altro gli animali più intelligenti.
Siamo anche consapevoli di noi stessi (il che non coincide necessariamente con
l’essere intelligenti, come vedremo meglio in seguito). Lo siamo soltanto noi?
L’escursione che occorre fare per incontrare i gorilla delle montagne Virunga in
Ruanda è piuttosto impegnativa. Questa regione dell’Africa non ha un clima caldo e
faticoso, ma è sorprendentemente fresca e nebbiosa. Salire a piedi fino alla zona dove
vivono i gorilla è un po’ come camminare nel parco nazionale di New Forest, in
Inghilterra – ma inclinati di 45°. La salita è interminabile e si scivola continuamente
sul fango, ma ne vale la pena.
Fummo molto fortunati, quel freddo giorno di giugno. Ci imbattemmo nel gruppo
Susa, una vasta famiglia di circa trenta gorilla, la più numerosa tribù di questi animali
(che comprende, cosa piuttosto spaventosa, grossomodo il 5 per cento di tutta la
popolazione mondiale di gorilla di montagna). C’erano diverse femmine mature, un
paio di grandi maschi sìlverback (dal dorso argentato) e qualche cucciolo pericoloso
che giocava con il bambù e il sedano.
I cuccioli non sono pericolosi di per sé, ovviamente. Ma ci avevano detto che
andavano evitati a ogni costo. Come tutti i giovani primati, sono vivaci ed
essenzialmente amichevoli e in realtà vogliono solo giocare. E se lo fanno possono
essere guai. «Un turista giapponese ha commesso un errore qualche mese fa», ci
raccontò una delle guide. «Un cucciolo gli si è avvicinato e lui lo ha preso in braccio.
Avessi visto il silverbackl Il gesto non gli è affatto piaciuto. Ha sollevato il turista –
dopo essersi ripreso il piccolo – e lo ha scagliato contro un albero, rompendogli una
gamba. Brutto affare».
Per la verità, il motivo per cui questi animali sono tanto vigorosi è un mistero. Un
gorilla ha la forza di dieci uomini, letteralmente, ed è capace di spezzare un ramo
dello spessore di una gamba. Ma tale forza non sembra conferire un vantaggio
evidente a questi animali. Non sono particolarmente aggressivi l’uno nei confronti
dell’altro e non hanno predatori naturali oltre l’uomo. O è un vestigio di un passato
evolutivo maggiormente caratterizzato da “zanne e artigli rossi di sangue” (la loro
dentizione indica certamente che sono “carnivori” più che “masticatori di insalata” e
in effetti c’è qualche prova del fatto che oggi i gorilla non sono erbivori puri), oppure
è il risultato di qualche forma piuttosto complessa di selezione sessuale, un po’ come
l’incredibile piumaggio di alcuni uccelli tropicali.
É misterioso anche il motivo per cui sono così intelligenti (né l’ambiente né lo stile
di vita francamente catatonico del gorilla di montagna sono particolarmente
impegnativi dal punto di vista intellettuale). Eppure senza dubbio sono molto
intelligenti. Dopo aver ciondolato per un quarto d’ora con il gruppo, iniziarono a
stufarsi di noi. Era sconcertante essere tanto vicini ad animali consapevoli della
presenza dell’uomo e tuttavia completamente indifferenti. La maggior parte delle
specie mostra un’aperta aggressività o un terrore cieco in presenza di qualche
esemplare di Homo sapiens (del tutto ragionevolmente, gli si dev’essere insinuato nel
cervello che quelle pericolose creature bipedi trasformano la loro pelle in un bel
tappeto appena li guardano). Quel connubio di lieve curiosità e intenzionale
indifferenza è piuttosto insolito. In ogni caso, un piccolo gruppo di gorilla decise di
fare un giro nella foresta, e noi decidemmo di seguirli.
Il gruppo che si era separato consisteva, a quanto ricordo, di due femmine non del
tutto mature e un giovane maschio. Sembravano in tutto e per tutto tre amici
adolescenti che vanno a fare una passeggiata e tali erano, suppongo. Camminarono
quasi in silenzio attraverso un bosco di bambù e ci condussero in una piccola gola,
una massa intricata di ragnatele e vegetazione sotto la volta della foresta. Nella gola,
un piccolo ma spettacolare crepaccio nella montagna, passava un ruscello, che a un
certo punto si allargava formando un piccolo laghetto, largo circa tre metri. I tre
gorilla si sedettero intorno al laghetto. Uno, credo una femmina, fissò intensamente il
suo riflesso nell’acqua. Potrei giurare che mentre osservava il proprio muso nello
specchio d’acqua si passò le dita tra i capelli. Poi uno degli altri, che pure aveva lo
sguardo fisso sui riflessi, schiaffeggiò l’acqua con la mano, e l’acqua naturalmente si
increspò. A quel punto i tre animali si sbellicarono dalle risate alla vista dei loro
riflessi tutti ondeggianti.
D’accordo, erano animali. Emettevano suoni, appropriati per la loro specie, che
consistevano di un certo insieme di grida e fischi. Uno scienziato vero, a differenza di
un giornalista o un turista, indubbiamente descriverebbe il loro cambiamento di
postura e di atteggiamento del corpo usando termini molto diversi da “sbellicarsi
dalle risate”. “Chissà che cosa gli passa per la mente?”, direbbero gli scienziati,
meglio non avvicinarsi.
Mi dispiace, ma non è un atteggiamento corretto. Se sembra una papera, cammina
come una papera e fa qua qua come una papera, è più facile presumere che si tratti
proprio di una papera, piuttosto che tirare in ballo qualche complessa analogia. Questi
gorilla si sbellicavano dalle risate per quello che nelle foreste Virunga è considerato
un divertimento. E se il senso dell’umorismo non è un segno di intelligenza e di
consapevolezza di sé, è difficile capire che cosa sia.
Nel corso della storia abbiamo avuto un atteggiamento vario e contraddittorio nei
confronti della consapevolezza animale, a proposito della quale sono emerse alcune
verità molto scomode. La scienza della cognizione animale ha subito una sorta di
rivoluzione nell’ultima trentina d’anni e le scoperte puntano tutte in una direzione: la
vita mentale degli animali è molto più complessa e sofisticata di quanto pensassimo.
Non solo gli animali sono più intelligenti di quanto credessimo un tempo,
probabilmente hanno anche più emozioni, sono più consapevoli di se stessi e sono per
molti versi più simili a noi di quanto si sia mai creduto possibile. Riguardo a questo
argomento la scienza è in rotta di collisione con il mondo dell’etica e della moralità
comunemente accettate e nel prossimo futuro sarà facile assistere a una rivoluzione
causata da quello che stiamo apprendendo. Se decidiamo che Fido non è uno zombie,
dovrà cambiare tutta la relazione tra l’umanità e il resto del mondo animale.
Storicamente, come vedremo, il tema dei diritti degli animali ha riguardato
soprattutto i teologi e i filosofi. In tempi recenti, è stato un argomento da candidati
politici e da attivisti. Ma oggi tutto il problema di quali “diritti” garantiamo alle altre
specie si è trasferito nel dominio scientifico. Non molto tempo fa, chiunque avesse
suggerito che altre specie possono pensare, usare linguaggi e strumenti e mostrare
emozioni “umane” quali l’amore, la gentilezza o l’empatia sarebbe stato accusato di
irrimediabile antropomorfismo e sentimentalismo.
Un tempo, l’“intelligenza” in un animale era vista come puramente “istintiva” e
l’“istinto”, comunque si decidesse di definire quell’entità piuttosto vaga, era una di
quelle cose che tracciavano un confine certo tra gli animali (di cui ogni mossa, per
quanto complessa, si credeva guidata dall’istinto) e noi (che, in quanto esseri
“superiori”, non siamo schiavi degli istinti). É da molto che riconosciamo
l’intelligenza di specie come i cani e gli scimpanzé, ma fino a tempi piuttosto recenti
molti scienziati vedevano nei comportamenti di questi animali poco più che un gioco
di intrattenimento, un simulacro del ragionamento cosciente. Possono sembrare
intelligenti, dicevano, ma è un’illusione. Dietro quegli occhi vivaci in realtà non vi è
nulla. Anche l’animale più vivace non è altro che una macchina, uno zombie.
Ora l’atteggiamento è cambiato. Più gli zoologi studiano il comportamento degli
animali, più complesso e “senziente” diventa il loro comportamento. La scienza si è
anche avvicinata a una definizione quantificabile della sensibilità, una lista di
controllo che consente di misurare le “prestazioni” di varie specie. E tutto ciò,
inevitabilmente, solleva alcune domande scomode.
Si riconosce da molto tempo che le grandi scimmie antropomorfe meritano un
riconoscimento speciale per la loro intelligenza e la loro presunta sensibilità. In verità
in molti paesi, tra cui la Gran Bretagna, specie quali i gorilla e gli scimpanzé hanno
acquisito uno status legale esclusivo, in particolare per quanto riguarda le leggi che
regolano la sperimentazione animale, che le separa dal resto del regno animale non
umano. Ma più aumenta la nostra conoscenza delle capacità degli animali, più
scomode diventano queste domande. Attribuire diritti agli scimpanzé e ai gorilla è
una cosa, ma che dire dei delfini? E se li si attribuisce ai delfini, che dire di altri
mammiferi, come cani e gatti? Pecore? Maiali? E i corvi? I pesci? Fermiamoci un
momento: alcuni di questi ce li mangiamo. Secondo alcuni scienziati e filosofi,
rivelare la vita mentale segreta degli animali significa scoperchiare un vero e proprio
vaso di Pandora.
Innanzitutto, com’è ovvio, occorre definire che cosa intendiamo esattamente con
sensibilità. Esistono sette caratteristiche su cui gli scienziati forse possono trovarsi
d’accordo. Tutte sono possedute dagli esseri umani e certe anche da molte altre
specie. Pochissime specie sembrano possederle tutte.
Al primo posto troviamo una teoria della mente, ossia la capacità di sapere o
indovinare che cosa sta pensando un altro essere. Una tipica prova della presenza di
una teoria della mente consisterebbe nel domandare: “Che cosa può vedere quella
persona laggiù?”. Gli esseri umani di più di quattro anni sanno rispondere; gli
scimpanzé adulti e i bonobo forse. Nessun’altra specie mostra questa capacità
cognitiva di altissimo livello (le persone gravemente autistiche e i bambini piccoli pur
dotati dì ogni capacità non sembrano avere una teoria della mente).
L’uso di strumenti, che un tempo si riteneva prerogativa esclusiva dell’umanità,
risulta molto comune. Varie scimmie antropomorfe e diversi uccelli, e persino le
lontre marine, sanno adattare materiali naturali per una gran varietà di usi e lo fanno
comunemente.
Numerose specie danno prova di avere la capacità, se questa è la parola giusta, dì
provare emozioni ed empatia.
Un altro tratto distintivo della sensibilità è la capacità di imitare. Nei primati, certi
neuroni, chiamati “neuroni specchio” paiono attivarsi quando l’individuo cerca di
copiare gli altri nell’eseguire un compito. Le scimmie antropomorfe, ovviamente,
sanno scimmiottare, così come i polpi, anche se il fenomeno è molto meno famoso.
Indubbiamente il linguaggio non viene più considerato un tratto esclusivo degli
esseri umani e il cosiddetto test dello specchio – “Riconosco che l’essere nello
specchio sono io?” -, un tempo considerato una demarcazione fondamentale tra
l’essere senziente e lo zombie, è stato superato da animali molto diversi tra loro come
i piccioni e gli elefanti (ed è discutibile che possa essere un buon test per specie le cui
abilità visive sono enormemente superate da altri sensi, come l’olfatto).
Forse la “massima” qualità della sensibilità è la metacognizione, la capacità di
riflettere sui propri pensieri. «Cogito, ergo sum» sono le famose parole con cui
Descartes sintetizzò ciò che significa essere consapevoli di se stessi e fino a poco
tempo fa a distinguerci dalle bestie era proprio la nostra capacità di riflettere, di
vivere in un mondo mentale disgiunto dal mondo dell’“adesso immediato”, che si
presume costituisca lo scenario del pensiero animale. Può darsi che stia per avvenire
un cambiamento.
Non tutti ne saranno convinti. Infatti, nonostante questi progressi, nonostante gli
articoli su “Science” e altre riviste che mettono in risalto il caso di corvi e delfini
geniali, nonostante i resoconti degli straordinari risultati conseguiti in laboratorio da
scimmie antropomorfe nell’utilizzo del linguaggio dei segni e persino delle capacità
linguistiche apparentemente reali di alcuni uccelli, tutto il settore della cognizione
animale continua a essere circondato da un alone di pseudoscienza. Sapere veramente
che cosa accade nella mente di un animale, dopo tutto, è impossibile. Come ha fatto
notare una volta il filosofo Thomas Nagel, non possiamo sapere come ci si sente a
essere un pipistrello.
Agli scettici – o ai cinici – piace dire che la ricerca in questo settore è ostacolata
dall’assunto che il plurale di “aneddoto” sia “dati”. Ciò nonostante, mettendo da parte
il sentimentalismo, le affermazioni indubbiamente dubbie fatte da certi ricercatori
riguardo a capacità simili a quelle umane e la scarsità di informazioni chiare, rimane
l’importante verità che più aumenta la nostra conoscenza degli animali, più gli
animali si rivelano, sotto certi aspetti, simili a noi.
É una frontiera della scienza. Le basi evolutive dell’intelligenza e della cognizione
in generale continuano a essere molto poco comprese. Non sappiamo perché gli esseri
umani sono diventati così intelligenti. Il cervello umano consuma enormi quantità di
energia (all’incirca un ottavo delle calorie che consumiamo serve ad alimentare il
computer che sta nel nostro cranio) e le sue sole dimensioni rendono traumatica la
nascita degli esseri umani, il che nella maggior parte delle specie mammifere non si
verifica.
Si tende a supporre che la nostra intelligenza sia emersa semplicemente per
selezione naturale – i benefici di una niente acuta ai fini della sopravvivenza
sembrano ovvi – ma in effetti è possibile che la strada verso l’intelligenza umana sia
stata aperta da qualcosa di molto più banale – la selezione sessuale, forse. La nostra
capacità di chiacchierare e formare relazioni sociali complesse è rispecchiata dalle
capacità di qualche altro primato, ma non abbiamo idea del motivo per cui noi, e non
loro, siamo dovuti diventare tanto intelligenti.
Naturalmente, noi siamo animali, ma fino a poco tempo fa si riteneva che dal punto
di vista intellettuale Homo sapiens costituisse quasi un regno a parte. Oggi non
possiamo più esserne tanto sicuri. E nel secolo in cui probabilmente si metteranno
sempre più a fuoco i ruoli e i possibili diritti degli animali, in particolare di specie che
sono in pericolo mortale come il gorilla di montagna, è facile che la scienza della
sensibilità degli animali diventi qualcosa di più di un tema di discussione puramente
accademico o filosofico.
Tradizionalmente, la religione ha avuto una grande influenza sulla concezione
della sensibilità animale, quanto meno in Medio Oriente e in Europa. I seguaci delle
grandi religioni monoteistiche ritenevano che gli animali fossero essenzialmente dei
beni, di cui disporre a proprio piacimento. In Genesi 1,26 si legge: «E Dio disse:
“Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del
mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i
rettili che strisciano sulla terra”».
Si può dire che in Occidente questa concezione abbia influenzato e dominato il
modo di concepire gli animali da parte della maggior parte delle persone fino al XX
secolo. Non è mai stata l’unica concezione, tuttavia. In altre società, in cui sono
diffuse altre religioni, gli animali possono essere considerati in modo del tutto
diverso. Nel buddismo, ad esempio, ogni creatura vivente è considerata parte di uno
spettro che comprende gli esseri umani. Gli indù considerano sacri certi animali, in
particolare le vacche, non se ne cibano e si astengono dal far loro del male. Ma nella
società che alla fine ha sviluppato la biologia evoluzionistica, l’etologia (lo studio del
comportamento animale) e le neuroscienze si è affermata la concezione biblica.
Questa concezione piuttosto inflessibile degli animali ha modellato il nostro studio e
le nostre interpretazioni in un modo tutt’altro che utile.
Ma anche ai tempi della Bibbia esistevano contraddizioni e paradossi. Gli animali
erano trattati male, tuttavia nacquero codici religiosi che proibivano la crudeltà nei
loro confronti. Gli animali erano carne da consumare, eppure nell’Europa medievale
potevano essere, e furono, processati per assassinio.
La scienza, per una volta, scelse quella che si può considerare come la concezione
tradizionale. René Descartes, com’è noto, affermò che tutti gli animali sono automi,
veri zombie le cui reazioni a cose come il dolore sono semplicemente riflessi
programmati.
Descartes riteneva che solo gli esseri umani presentassero un comportamento
sufficientemente complesso e raffinato da indicare la presenza di un’“anima”
dualistica, il fantasma nella macchina necessario alla coscienza. Era un’idea
convincente e continua a convincere. Un animale che soffre, senza dubbio un
mammifero o un uccello che soffre, sembra soffrire esattamente come un essere
umano. Ci saranno grida, guaiti, contorcimenti dei muscoli, dei legamenti e dello
scheletro, che indicano lo stato di agonia. Monitorando il cervello dell’animale e le
proprietà chimiche del sangue, si rileva la presenza di ormoni dello stress come il
cortisolo e l’adrenalina e si osserva che le reazioni fisiche sono identiche a quelle
degli esseri umani.
Ma possiamo essere del tutto certi che l’animale stia effettivamente provando
dolore proprio come un essere umano? Naturalmente no. Non è difficile immaginare
programmi o robot ideati per imitare le manifestazioni esteriori del dolore, ma in
questi casi chiaramente non c’è alcuna sofferenza. Posso facilmente programmare la
macchina su cui sto scrivendo questo libro in modo che scriva “ahi!”, o qualcosa del
genere, ogni volta che premo, ad esempio, il tasto “Q”, ma dovrei essere deficiente
per credere che il mio computer stia davvero soffrendo.
Dovrei essere imbecille anche per supporre che i contorcimenti di un’ameba in
presenza di sostanze chimiche nocive o di una temperatura estremamente alta o bassa
corrispondano a una percezione significativa di dolore o anche di lieve sgradevolezza.
Un’ameba è soltanto una macchina biologica, un sacchettino di proteine e acidi
nucleici, grassi e acqua e varie altre cianfrusaglie, che verosimilmente non “soffre”
più del mio telefono o della mia macchina. Un tempo, questo era considerato un
argomento convincente che “dimostrava” che gli animali non sono coscienti, ma oggi
in generale non è più accettato. Un’ameba differisce da un cane tanto quanto un cane
differisce da un computer.
Ma fino a qualche tempo fa non era scientificamente corretto sostenere l’esistenza
di una qualche vita mentale degli animali. Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo
scorso, il comportamentismo, una scuola psicologica radicale, affermava che, così
come era insensato sostenere che gli animali avessero una vita mentale, era altrettanto
insensato sostenere che ne avessero una gli esseri umani. Burrhus Frederic Skinner, il
più fervido sostenitore del comportamentismo, condusse numerosi esperimenti su
piccioni chiusi in una scatola e individuò relazioni complesse tra gli stimoli e le
reazioni, sviluppando la sua premessa che il cervello del piccione fosse una macchina
calcolatrice.
Skinner allenò i suoi piccioni a eseguire “giochi” straordinariamente complessi,
come premere una certa sequenza di leve allo scopo di ottenere un cibo gradito e cose
del genere. Quel che accadeva nella testa del piccione, pensava Skinner, non era nulla
di più della continuazione di queste leve, una serie interconnessa di meccanismi
mentali inconsapevoli che alla fine facevano fare questa o quell’azione all’animale.
Skinner tentò di realizzare un esperimento del genere persino con sua figlia.
Per i comportamentisti, quel che accadeva all’interno del cranio era inconoscibile e
quindi immeritevole di essere studiato e persino considerato. Discutere della mente
“cosciente” e del suo possibile significato era come discutere delle fate e degli gnomi.
I pensieri nella migliore delle ipotesi erano solo una forma interiorizzata di
linguaggio.
Il comportamentismo ha indubbiamente illuminato molti aspetti del funzionamento
della mente e ha portato una proficua ventata di rigore matematico nel caotico e
variopinto luna park di idee in cui si stava trasformando la psicologia. C’era un
grosso problema, però.
Sappiamo tutti di avere una vita mentale, interiore, perché ne facciamo esperienza.
Negare l’esistenza della vita mentale perché è impossibile studiarla in maniera
significativa è come negare l’esistenza della galassia di Andromeda perché nessuno
vi è stato e probabilmente nessuno vi andrà mai. Naturalmente, il comportamentista
può fare un ragionamento solipsistico e presumere di essere l’unico organismo
vivente con una vita mentale, mentre i suoi piccioni e i suoi colleghi sono solo
zombie, ma questo aggiungerebbe un’inutile complessità al ragionamento (perché
mai dovrebbe essere l’unico cosciente tra tutti i miliardi di esseri?). Solo questo fatto
richiederebbe un’enorme quantità di spiegazioni. Oggi sarebbe molto difficile trovare
qualcuno che abbia la rigida concezione comportamentista della coscienza animale o
umana.
Ma che cosa significa essere consapevoli di sé, anzi, essere coscienti di qualsiasi
cosa? Dopo tutto, è assolutamente possibile che l’essere umano esegua processi
mentali complessi e non ne sia cosciente. Se andate al lavoro tutti i giorni
percorrendo lo stesso percorso in macchina, è probabile che durante la maggior parte
di questi spostamenti, il più delle volte, non siate coscienti delle vostre azioni più di
quanto lo siate del battito del cuore o del lavoro svolto dai reni. Provate a ricordare
l’intero viaggio la prossima volta che parcheggiate vicino all’ufficio.
Eppure, nonostante il fatto che guidare una macchina è un processo governato dalla
mente enormemente complesso e difficile e che richiede un po’ di tempo prima di
essere padroneggiato (e tutti ricordiamo com’era le prime volte), il più delle volte non
ci andiamo a schiantare anche se siamo stati uno zombie per la maggior parte del
viaggio. Molte delle nostre azioni più complicate e di grande effetto sembrano non
essere eseguite sotto un qualche tipo di controllo cosciente. Ammiriamo l’abilità” dei
migliori calciatori o tennisti, ma in realtà che cos’è che ammiriamo quando vediamo
Roger Federer che effettua un’incredibile risposta a un servizio da 220 chilometri
all’ora o Ronaldo che si ferma di colpo sparando la palla in rete da 40 metri? Dopo
tutto, queste azioni quasi per definizione devono essere inconsce. L’abilità si
acquisisce con l’allenamento, con ore e ore di pratica e con la forza di carattere e la
determinazione necessarie per appartenere all’1 per cento dei migliori in qualsiasi
sport professionale. Giocare effettivamente, a livello internazionale, è uno spettacolo
per i giocatori tanto quanto per gli spettatori.
Se gli esseri umani possono essere per lo più non coscienti delle proprie azioni
mentre giocano a tennis o guidano, gli scimpanzé possono senz’altro non essere
coscienti quando vanno a caccia o si puliscono l’un l’altro. Ma ciò non significa che
gli animali o gli esseri umani non siano consapevoli di sé. La questione della
consapevolezza è una delle più complicate della scienza, ma il punto essenziale è se
l’unico ad esserne dotato, qualunque cosa sia, è Homo sapiens.
Non possiamo sapere come ci si sente a essere un pipistrello, un uccello o una
balena. Ma non ne discende che non possiamo studiare e scoprire qualche cosa di
utile in merito alla consapevolezza animale. Nel 1970, lo psicologo Gordon Gallup
ideò il test dello specchio per stabilire se gli animali fossero consapevoli di sé. In
sostanza, si usa uno specchio per capire se un animale sa riconoscere che l’immagine
riflessa è l’immagine di se stesso. Moltissimi animali sono affascinati dagli specchi,
ma, per capire se sanno di essere la creatura nello specchio, nel test di Gallup si segna
l’animale con una macchia di colore (che non può vedere se non nello specchio) e si
controlla se il comportamento dell’animale indica che si rende conto che il corpo
riflesso, con la macchia di colore, è il suo.
Finora otto specie hanno superato il test dello specchio, sei in modo inequivocabile
(gli esseri umani, gli scimpanzé, i bonobo, gli oranghi, i delfini e gli elefanti) e altre
due (i gorilla e i piccioni) in circostanze più controverse. I bambini di meno di due
anni non superano il test, come (forse sorprendentemente) i cani e i gatti. Una specie
di scimmie, il cebo cappuccino, sembra superarlo in modo appena sufficiente.
La specie che è stata sottoposta più di recente al test dello specchio è l’elefante
africano. Nel novembre 2006, i “Proceedings of the National Academy of Science”
hanno pubblicato un articolo che descrive un esperimento condotto su tre elefanti,
Happy, Maxine e Patty, che vivono al Bronx Zoo di New York
1
. I tre elefanti sono
stati messi davanti a uno specchio dopo che gli avevano dipinto sulla fronte una
macchia di colore; tutti e tre hanno reagito in un modo che indicava che si erano resi
conto di essere l’animale riflesso nello specchio: si sono infilati la proboscide in
bocca e hanno fissato lo specchio affascinati. Uno, Happy, ha superato il test della
macchia: dopo averla vista nello specchio, ha cercato di cancellarsela dalla fronte con
la proboscide. «La complessità sociale dell’elefante», ha detto Joshua Polotnik, uno
degli scienziati responsabili dello studio, «il suo ben noto comportamento altruistico
e naturalmente il suo grande cervello hanno fatto dell’elefante un candidato logico
1
J. Plotnik, F.B.M.de Waal e D. Reiss, Self-Recognition in an Asian Elephant, in “Proceedings of the National
Academy of Sciences”, CIII (45),2006, pp. 17 053-17 057.
per il test dello specchio».
Il test dello specchio potrebbe essere una buona indicazione di consapevolezza in
specie che sono “cablate” in un certo modo. Però è un “test” esclusivamente visivo e
per molte specie la vista non è il senso principale. I cani, ad esempio, si riconoscono
per lo più dall’odore. Se si riuscisse a ideare una versione olfattiva del test dello
specchio, probabilmente noi saremmo bocciati. Né gli esseri umani né gli elefanti né
gli scimpanzé riuscirebbero a superare un test basato sull’ecolocazione, a differenza
di un pipistrello. Il test dello specchio impone un criterio puramente umano (forse
puramente primate) per la misurazione della consapevolezza. Però non rivela granché
su come ci si senta a essere un pipistrello, un bracchetto o un tasso.
Quali altri criteri potremmo usare per stabilire se gli animali sono coscienti o sono
zombie? Esiste una gamma di emozioni che sembra dipendere da un senso molto
complesso del proprio posto nel mondo e della propria relazione con esso. Emozioni
quali la gelosia, il sarcasmo o l’umorismo sembrano richiedere un senso di sé molto
sofisticato (emozioni meno complicate come l’amore o l’odio, o la paura e la rabbia,
forse non richiedono affatto lo stesso livello mentale). Allora, gli animali possono
provare gelosia? Possono essere sarcastici? La maggioranza degli scienziati ne
dubita, ma chi possiede un cane risponde invariabilmente in modo affermativo.
Esistono miriadi di aneddoti su bastardini che sgattaiolano con aria offesa per
mettersi a dormire sotto il letto quando nasce un bimbo, o di cuccioli disubbidienti
che “nascondono” calzini e guanti dietro il divano e manifestano grande gioia quando
il padrone esprime la sua frustrazione. Questi episodi appartengono per lo più alla
categoria del “gioco” ed esistono molte prove, anche in questo caso aneddotiche, del
fatto che moltissime specie si dedicano al gioco. Ma in quale misura si tratta di
scienza e non di una semplice antropomorfizzazione? E, cosa più importante, quanti
dati abbiamo?
Non molti. Un recente resoconto aneddotico sostiene di aver confermato che i cani
possono provare gelosia. La ricerca, svolta all’Università di Portsmouth, in Gran
Bretagna, ha riguardato 1.000 cani da compagnia e i loro proprietari, i quali hanno
riferito molti casi di gelosia, in cui i cani si sono mostrati irritati dalle manifestazioni
di affetto dei loro proprietari per un essere umano o per altri animali.
Per esprimere la gelosia di solito il cane si piazza a forza tra il proprietario e la
persona da cui si sente usurpato. Nei numerosi casi raccontati ai ricercatori, il cane
aveva cercato di piazzarsi fisicamente tra il suo padrone e una nuova persona
importante, specie in presenza di scambi affettuosi. Sono comportamenti che fanno
sorridere, ma che possono diventare meno divertenti quando la nuova persona è un
neonato.
Per quanto convincenti siano questi racconti, non si tratta di vera scienza. La
descrizione del comportamento di un cane o di un gatto da parte del suo proprietario
non vuol dire granché; non è certo uno studio in doppio cieco. Forse più convincenti
sono alcuni risultati neurofisiologici che suggeriscono che gli animali potrebbero
essere capaci di innamorarsi.
Nel cervello delle grandi scimmie antropomorfe e degli esseri umani esiste una
struttura composta di neuroni specializzati, le cosiddette cellule fusiformi. Questi
neuroni si trovano in quelle regioni della corteccia cerebrale che sono state collegate
all’organizzazione sociale, all’empatia, alla simpatia, al riconoscimento del parlato,
all’intuizione delle sensazioni provate dagli altri e all’attaccamento emotivo. Una di
queste regioni, la corteccia cingolata anteriore, sembra associata alle reazioni emotive
a cose quali il dolore, l’eccitazione sessuale e la fame. Un’altra parte del cervello, la
corteccia fronto-insulare, genera una reazione simile quando vediamo altri soffrire o
provare dolore. Le forti reazioni emotive che abbiamo nei confronti di altri individui –
odio, paura, desiderio sessuale, amore o affetto – sembrano dipendere in gran parte
dalla presenza di queste cellule fusiformi che si attivano rapidamente.
Sembra inoltre che le grandi scimmie antropomorfe (compresi gli esseri umani,
naturalmente) potrebbero non essere gli unici animali con queste caratteristiche. In
quello che potrebbe essere un caso classico di evoluzione parallela, Patrick Hof ed
EstelVan Der Gucht della Mount Sinai School of Medicine di New York hanno
individuato cellule fusiformi nel cervello delle megattere, delle balenottere comuni,
delle orche e dei capodogli e per di più nel cervello dei cetacei ne hanno trovato una
concentrazione molto superiore a quella presente nel cervello umano. I cetacei, ha
detto Hof a “New Scientist” nel gennaio 2007, «comunicano mediante vasti repertori
di canzoni, riconoscono le proprie canzoni e ne inventano di nuove. Inoltre formano
raggruppamenti per pianificare strategie di caccia […] e hanno sviluppato reti sociali
simili a quelle delle grandi scimmie antropomorfe e degli esseri umani».
Forse il fattore la cui presenza permette di determinare nel modo migliore la
sensibilità è il ragionamento astratto. Gli esseri umani sono capaci di metacognizione,
sanno riflettere sui propri pensieri. É questa la capacità descritta dal famoso aforisma
di Descartes «cogito, ergo sum». Conoscere i propri pensieri sembra essere una parte
fondamentale della consapevolezza. Uno degli assunti tradizionali è sempre stato che
gli animali, essendo privi di un linguaggio con cui interiorizzare i loro pensieri, non
possono conoscerli. Possono pensare al dolore che provano, ma non si possono
preoccupare del dolore che verrà. Non essendo capaci di metacognizione, gli animali
si potrebbero caratterizzare, se non come zombie, certamente come creature prive di
una proprietà fondamentale che caratterizza la condizione di non essere zombie, con
un mondo interiore composto da una serie nebulosa e non riflessiva di momenti di
coscienza acuta.
Alcuni ricercatori, tuttavia, sostengono che è possibile svelare la vita interiore di
alcune specie, che in effetti manifestano questa proprietà. David Smith, uno
psicologo che lavora all’Università di Buffalo, nello stato di New York, ha lavorato
per anni con un delfino tursiope, di nome Natua, in un porto della Florida. Smith ha
addestrato l’animale a premere due pulsanti diversi a seconda della frequenza dei
suoni che gli faceva ascoltare. Quando la differenza tra i suoni era ovvia, il delfino
non aveva problemi (in caso di risposta giusta riceveva in premio un buon boccone).
Ma quando i suoni diventavano difficili da confrontare, fino al punto che persino il
formidabile udito del delfino era incapace di distinguerli, Natua aveva imparato a
premere il terzo pulsante, un pulsante che in realtà significava “non so”, o “passo”, il
che faceva procedere il test alla “domanda” successiva. Smith ha ottenuto risultati
simili con i macachi reso, in questo caso usando un certo insieme di simboli in un
videogioco. I test sono stati perfezionati al fine di stabilire con quale livello di
certezza l’animale ritiene di conoscere la risposta “giusta”. A “New Scientist”, nel
2006, Smith ha dichiarato: «Non posso sostenere che queste scimmie manifestino una
piena coscienza, però ho mostrato la precisa analogia cognitiva con quanto si verifica
negli esseri umani – e per noi è coscienza».
Gli animali possono essere molto intelligenti. Negli ultimi anni le scimmie
antropomorfe, forse i delfini, e certamente alcuni corvi hanno stupito gli scienziati e il
pubblico con manifestazioni di intelligenza che i primi ricercatori non avevano
previsto. A quanto pare, ogni anno otteniamo nuovi dati che mostrano che
probabilmente gli animali sono più intelligenti di quanto pensassimo. Uno degli
attributi che in precedenza si ritenevano caratteristici degli esseri umani è l’uso di
strumenti. L’idea si rivelò infondata appena si scoprì, negli anni Ottanta del secolo
scorso, che gli scimpanzé dell’Africa orientale e centrale sanno usare ramoscelli
inumiditi per stanare le termiti. Un gorilla delle pianure occidentali nella Repubblica
del Congo, un maschio di nome Kola, ha imparato a controllare la recinzione elettrica
che circonda la riserva naturale in cui vive poggiando il gambo di una pianta sul filo
metallico. Il gambo trasmette un po’ di corrente, quel tanto che basta a rivelarne la
presenza a Kola, ma che non è sufficiente a dargli la scossa. Non tutti gli esseri umani
ci arriverebbero.
Il fatto che le scimmie antropomorfe, i nostri parenti più stretti, possano essere
tanto intelligenti forse non stupisce, ma quel che ha sorpreso non pochi scienziati è
l’intelligenza che stanno rivelando alcuni uccelli, un gruppo il cui nome in
precedenza era sinonimo stesso di stupidità.
La serie televisiva della BBC Life of Birds, andata in onda nel 1998, ha mostrato
alcuni filmati straordinari in cui alcuni corvi giapponesi lasciano cadere sulle strisce
pedonali un tipo di noci dal guscio molto duro. Quando il traffico si ferma, se una
macchina ha schiacciato la noce, scendono a terra a beccare il gheriglio.
Tutto ciò non è certamente molto scientifico. Ma nel 2002 un corvo della Nuova
Caledonia di nome Betty ha avuto un ruolo da protagonista sulla rivista “Science”
dopo aver imparato a costruire un uncino con un pezzo di filo elettrico e a usare
questo strumento per pescare il cibo da un contenitore di vetro lungo e stretto
2
. La
prodezza ha colpito gli scienziati, in particolare poiché un tale livello di utilizzo di
strumenti non si era mai osservato neanche negli scimpanzé. «I primati sono
considerati i più versatili e raffinati utilizzatori di strumenti», hanno scritto gli autori
della ricerca, «ma le osservazioni del corvo della Nuova Caledonia indicano la
possibilità che questi uccelli eguaglino i primati non umani per quanto riguarda le
capacità cognitive legate all’uso di strumenti».
Il punto davvero straordinario era che Betty aveva costruito gli uncini con un filo
metallico flessibile, non con un materiale comune nel suo habitat. Ancora più
impressionante era il modo in cui li aveva costruiti. I corvi non hanno mani, dita
opponibili e pollici. Per costruire un uncino, Betty dapprima infilava un’estremità del
filo nel nastro adesivo avvolto intorno al fondo del contenitore di vetro e poi tirava
l’altra estremità ad angolo retto con il becco. Betty non aveva ricevuto alcun
addestramento e non aveva mai visto altri corvi fabbricare un uncino. Gli scimpanzé,
in alcuni esperimenti simili, si sono dimostrati incapaci di afferrare il principio di
2
A.A.S. Weir, J. Chappell e A. Kacelnik, Shaping of Hooks in New Caledonian Crows, in “Science”, CCXCVI1,2002,
p. 981.
piegare un filo metallico flessibile per costruire un uncino e recuperare pezzi di cibo.
Alcune persone probabilmente sarebbero in difficoltà.
Il fatto che gli uccelli, per lo meno alcuni, siano così intelligenti è una vera
sorpresa, in parte perché gli uccelli sono parenti molto alla lontana degli esseri umani.
Non sono neanche mammiferi. Ma naturalmente non c’è ragione di supporre che il QI
(qualunque cosa significhi in un contesto animale) debba avere qualche relazione con
la vicinanza evolutiva a Homo sapiens. Nel 2004, “Science” ha pubblicato un articolo
che discute la questione dell’intelligenza dei corvidi (corvi, ghiandaie, cornacchie,
gazze, corvi imperiali e taccole)
3
. Per la verità, anche se in generale non si attribuisce
una grande intelligenza agli uccelli (vedi il famoso “cervello di gallina”),
l’intelligenza di queste specie è nota da tempo. In una favola di Esopo, un corvo che
non riusciva a bere da un’anfora, perché il livello dell’acqua era troppo basso per
poterlo raggiungere con il becco, si mise a gettare sassi nel contenitore, fino a quando
il livello dell’acqua divenne raggiungibile. Per moltissimo tempo, le favole come
questa sono sempre state liquidate come dicerie e folklore, quali ovviamente sono,
però è interessante notare che solo da poco tempo la scienza ha iniziato a scoprire che
molte delle cose che i profani hanno pensato dell’intelligenza animale potrebbero
essere vere. «Alcuni esperimenti recenti», hanno scritto gli autori, «che hanno
indagato le capacità cognitive dei corvidi hanno iniziato a rivelare che la loro
reputazione ha effettivamente un fondamento».
Gli autori ipotizzano che l’intelligenza si evolva non per risolvere problemi fisici,
ma per elaborare e usare le informazioni sociali, come le alleanze e le parentele, e per
usare queste informazioni allo scopo di ricavarne un guadagno personale e di
ingannare gli altri. Molto bene, ma è necessario avere l’equipaggiamento adatto per il
compito e i corvi e i loro parenti sembrano soddisfare anche questo criterio. Il corvo
ha un cervello significativamente più grande di quanto si potrebbe prevedere in base
alle dimensioni corporee – di fatto, sulla base di questa misura è simile al cervello
dello scimpanzé.
Nella famiglia degli uccelli, solo qualche pappagallo ha un cervello più grande in
relazione alle dimensioni del corpo. Il cervello del corvo è inoltre particolarmente ben
sviluppato in quelle aree che si ritengono responsabili dei processi di pensiero
“superiori”, una regione del cervello chiamata “corteccia prefrontale aviaria”, perché
ritenuta analoga alla struttura presente nel cervello dei mammiferi.
Va detto che i corvi, che in cattività costruiscono uncini, allo stato naturale hanno
un comportamento che indica alcune capacità straordinarie. Ad esempio, tagliano da
una foglia di Pandanus una striscia stretta che si allarga all’estremità, una sorta di
paletta con un margine dentellato, e la usano per trafiggere vermi e insetti raccolti al
di sotto della vegetazione. Molti corvidi mettono da parte il cibo per consumarlo in
un secondo momento; non sono gli unici a farlo naturalmente, ma il punto
straordinario è che sembrano essere in grado di distinguere le provviste deperibili da
quelle che si conservano a lungo e di tornare al nascondiglio prima che le provviste
siano diventate inservibili. Nelle ricerche condotte in laboratorio, gli uccelli non
tornavano mai in un nascondiglio che contenesse vermi, poniamo, dopo un lungo
3
N.J. Emery e N.S. Clayton, The Mentality of Crows: Convergent Evolution of Intelligence in Corvids and Apes, in
“Science”, CCCVI, 2004, pp. 1903-1907.
intervallo di tempo, mentre lo facevano se si trattava di semi. Questo indica una
memoria di tipo “che cosa, dove, quando” simile alla nostra. Questi uccelli hanno
anche la capacità di creare strategie complesse per far fronte ai ladri: nascondono il
cibo dove altri uccelli non possono vederlo, oppure aspettano, con il becco pieno, che
gli altri uccelli volino via o si voltino da un’altra parte prima di nascondere le
provviste. E gli uccelli che sono ladri abituali tendono a nascondere meglio il loro
cibo di quelli che non lo sono.
Questi uccelli, in altre parole, mostrano flessibilità, sembrano capaci di capire quel
che potrebbero pensare gli altri, comprendono il principio di causalità, danno segno
di avere immaginazione e sanno pianificare. Cosa ancora più importante, il loro
comportamento sembra proprio indicare che sono capaci di creare questa “cassetta
degli attrezzi cognitivi” per costruire un’immagine interiorizzata del mondo. Ciò
significa che sono pienamente senzienti e coscienti? Non lo sappiamo. Tuttavia è
senza dubbio una buona prova a sostegno.
Betty e i suoi parenti sono decisamente impressionanti, però non sanno parlare.
Alcuni uccelli, naturalmente, sono capaci di imitare il linguaggio umano, ma solo
recentemente qualcuno ha avanzato l’ipotesi che siano capaci di capire quel che
dicono. Alex, un cenerino africano, è stato studiato per quasi trent’anni dalla
psicologa animale Irene Pepperberg negli USA. Alex ha un vocabolario di circa cento
parole inglesi e sembra capire che cosa significano. Pepperberg sostiene che Alex
capisce concetti quali forma, colore e materiale e che sa usare l’inglese nel modo
corretto per descriverli. A quanto pare, Alex mostra anche rimorso. É riuscito persino
a inventare una parola, bannery, la prima volta che ha visto una mela – in quel
momento conosceva già l’uva (grapes) e le banane (bananas). Un altro cenerino
africano che vive negli USA, N’kisi, è capace – questo sostiene il suo proprietario
(alcuni scienziati sono piuttosto scettici nei confronti di N’kisi) – di usare il
linguaggio per fare effettivamente conversazione (una capacità che non è stata
rivendicata per Alex). Pare che N’kisi sappia essere umoristico e persino sarcastico.
Ha inventato una nuova espressione quando ha scoperto gli oli per l’aromaterapia
usati dal suo padrone – “medicina odore buono” – anche se non è noto se il suo
atteggiamento sarcastico si estenda alle terapie alternative. E c’è dell’altro, oltre ai
pappagalli e ai corvi. Ora si è scoperto che una pecora può riconoscere decine di
persone. E si sono osservati lombrichi che fanno calcolo differenziale (sto
scherzando).
Essere abili e inventivi non vuol dire essere consapevoli. Il fatto che i corvi
sappiano costruire uncini con un filo metallico non implica necessariamente che siano
senzienti. Ma è verosimile che l’intelligenza sia collegata alla coscienza. Il fatto che il
cervello dei mammiferi, dei rettili, degli uccelli, degli anfibi e persino dei pesci abbia
strutture e origini evolutive comuni indica decisamente che la nostra consapevolezza
quasi certamente non è una nostra caratteristica esclusiva. Non trarre questa
conclusione equivarrebbe a ipotizzare qualcosa di veramente molto strano, su una
falsariga cartesiana – che in qualche modo, in un qualche punto dell’evoluzione di
Homo sapiens, e solo di Homo sapiens, qualcosa di magico abbia invaso i nostri crani
nel Pleistocene e vi si sia stabilito.
Allora, dove ci ha condotto tutto ciò? In una posizione piuttosto scomoda, direi. Se
presumiamo, come credo si debba, che gli animali siano esseri senzienti e
consapevoli capaci di pensiero cosciente e di distinguere se stessi dal resto del mondo
che li circonda, se gli animali non sono zombie, allora la distinzione tra gli animali e
noi stessi diventa alquanto arbitraria. Come ha sostenuto qualcuno, mangiare gli
animali non è diverso, moralmente, dal cannibalismo (anzi, è peggiore, poiché con il
cannibalismo esiste per lo meno la possibilità che il pasto dia il proprio consenso a
essere consumato).
È senz’altro sgradevole che più approfondiamo la nostra conoscenza degli animali,
più impressionanti sembrano essere le loro capacità intellettive e più sembriamo
avere in comune, dal punto di vista biologico. Naturalmente, lo si può ingigantire. È
un fattoide troppo citato che gli esseri umani e gli scimpanzé condividono più del 99
per cento del DNA, ma un altro fattoide molto meno citato è che condividiamo due
terzi del DNA con l’ippoglosso (o halibut) e una percentuale certamente di due cifre
con il lievito. E comunque, che cosa significa?
Anche se gli esseri umani e gli scimpanzé possono stare su ramoscelli vicini
dell’albero evolutivo, mentalmente potremmo anche trovarci in foreste diverse. Ciò
nondimeno, cose quali l’utilizzo di strumenti, il linguaggio, un senso (forse) di equità,
e persino emozioni come l’umorismo e la gelosia – un tempo ritenute tutte
caratteristiche esclusive degli esseri umani – ora sono state osservate, in misura
minore o maggiore, anche negli animali. Verosimilmente, più sonderemo la mente
delle scimmie antropomorfe e non antropomorfe, degli elefanti, dei cani, degli uccelli
e probabilmente anche dei pesci, più impressionante sarà l’apparato intellettivo che
scopriremo. Persino gli invertebrati non sono immuni da questa “rivoluzione
intellettuale” degli animali; alcuni cefalopodi – i calamari, le seppie e i polpi – sono
così intelligenti che in alcune giurisdizioni si sono guadagnati il diritto legale di
essere protetti da certe procedure sperimentali dolorose.
Incontestabilmente, identifichiamo gli esseri senzienti con l’umanità e con il diritto
a un trattamento umano. Nel corso della storia, le peggiori crudeltà perpetrate dagli
esseri umani su altri esseri umani si sono verificate quando i colpevoli erano convinti
che le loro vittime non fossero realmente umane, non fossero esseri senzienti.
All’inizio dell’Ottocento, un giornale inglese pubblicò un famoso annuncio di ricerca
di “fucili” (nel senso di uomini armati di fucile) per una spedizione di caccia – allo
scopo di uccidere gli aborigeni della Tasmania. Nel 1800, la popolazione tasmaniana
era composta da circa 5.000 individui, ma nel 1867 erano tutti morti, ridotti a una
serie di membra umane esibite nei musei. I “fucili” non lo considerarono un
vergognoso genocidio semplicemente perché non ritenevano che gli aborigeni
tasmaniani fossero persone.
Gli animali non sono persone, ma di nuovo, quanto alle capacità intellettive (e alla
sensibilità), anche molte persone non sono realmente persone. I neonati, le persone
mentalmente confuse per l’età senile, o in coma a causa di un incidente o di una
malattia hanno tutti capacità intellettive decisamente inferiori a quelle, poniamo, di
uno scimpanzé adulto o del gorilla Kola, eppure in tutte le culture e le società la legge
concede molti più diritti all’essere umano che alla scimmia.
Tutto ciò è illogico, come sostiene il filosofo australiano Peter Singer, che ha un
atteggiamento riduzionista estremo, ma convincente, nei confronti dei diritti degli
animali. Se è giusto sacrificare la vita di uno scimpanzé per salvare un essere umano,
potrebbe essere giusto, in certe circostanze, anche sacrificare una vita umana per
salvare uno scimpanzé. Sostenere il contrario è semplicemente sbagliato e rende
colpevoli di arbitrario specismo. Il Progetto Grandi Scimmie Antropomorfe (il cui
nome, ironicamente, indica di per sé un certo livello di arbitrario specismo) è una
libera associazione di scienziati e filosofi che sostengono che dovremmo estendere
alcuni diritti legali quanto meno ai primati “superiori”, i nostri cugini primi, come
primo passo. Ciò significherebbe che la sperimentazione su questi animali, per
qualsiasi scopo, anche per saggiare procedure mediche potenzialmente salvavita,
dovrebbe essere vietata, in qualsiasi luogo e circostanza. Le grandi scimmie
antropomorfe di fatto avrebbero diritti legali simili a quelli attribuiti agli esseri
umani.
Se i primati non umani mostrano di essere capaci di metacognizione – di riflettere
sui propri pensieri e ricordi – questo li pone in una luce completamente diversa. Non
si può più pensare che queste specie, e forse molte altre, vivano in un eterno presente,
reagendo alla fame e al dolore, alla paura e al piacere senza un concetto di
anticipazione o di riflessione. Un conto, forse, è causare dolore a un animale che non
può prevedere né riflettere sulla propria esperienza e tutt’altro conto è portare in un
laboratorio o in un mattatoio una creatura terrorizzata che si è già fatta un quadro
mentale angosciante di quanto le sta per capitare.
La maggior parte delle persone ragiona in altro modo, naturalmente. Conosco molti
scienziati che sostengono, in modo convincente, che concedere “diritti” a una
scimmia antropomorfa favorendola rispetto a un anziano affetto dal morbo di
Parkinson è grottesco. Sperimentando sul cervello di scimmie antropomorfe e non
antropomorfe gli scienziati hanno fatto grandi progressi nella comprensione di questa
spaventosa malattia invalidante e nell’individuazione di una cura. Fermare questa
sperimentazione, nei laboratori europei e americani, è diventata la raison d’ètre di
molte organizzazioni che si battono per i diritti degli animali, alcune delle quali
hanno fatto ricorso ad azioni terroristiche per comunicare il loro messaggio, e tutti
conveniamo che è stata una scelta spregevole.
Che dire dell’argomento “pari diritti e pari responsabilità”? Anche in questo caso,
sostengono molti scienziati e profani, è assurdo accordare “diritti” a un animale che
non può avere idea delle proprie responsabilità in base alle leggi che lo proteggono.
Se proteggiamo gli scimpanzé dalla vivisezione, non dovremmo anche citarli in
giudizio quando si uccidono tra di loro, o quando uccidono un essere umano (come
accade)? Dovremmo concedere il voto ai gorilla? É assurdo, chiaramente, quindi
forse dovremmo ripensare a questi “diritti” e scartare l’idea su due piedi.
Ma in realtà l’argomento delle “responsabilità” non regge, ed è immediato
dimostrarlo; infatti concediamo un’intera schiera di diritti a esseri umani cui non
imponiamo la benché minima responsabilità. Di nuovo, parliamo dei bambini piccoli,
dei vecchi, dei malati e dei pazzi. I malati di mente non possono votare, come pure i
bambini, ma giustamente non è permesso infilare elettrodi nel loro cervello per far
progredire la scienza medica. I bambini sono assolti dalla piena responsabilità quando
commettono azioni criminali. Non abbiamo problemi a concedere diritti senza
responsabilità agli esseri umani, quindi perché non concederli agli animali?
Lo scenario più probabile è che saremo obbligati a venirne fuori in qualche modo,
forse rendendo più severe le leggi sulla crudeltà verso gli animali, ma in sostanza
mantenendo la stessa relazione inquieta con il mondo animale che domina sin da
quando ci siamo allontanati dai nostri parenti più stretti. Ma è una situazione che
potrebbe non durare in eterno. Più studieremo gli animali intellettualmente più
sviluppati, più ipersensibili diventeremo, è inevitabile. Ogni secondo gli esseri umani
uccidono circa 16.000 animali per cibarsene – vale a dire 504 miliardi di vittime
all’anno. Anche se questa carneficina probabilmente viene eseguita in condizioni
abbastanza compassionevoli nei paesi ricchi, dove leggi severe governano il
benessere degli animali allevati, possiamo dare per scontato che la vasta maggioranza
di queste vite termina in modi relativamente disgustosi e brutali.
Può darsi che di qui a qualche anno, o qualche secolo, guardandoci indietro
considereremo il modo in cui trattiamo attualmente le creature delle altre specie con
lo stesso disgusto con cui oggi consideriamo lo schiavismo – una pratica che 250 anni
fa era comunemente accettata nella maggior parte delle società “avanzate” del
pianeta. É un argomento a favore non del vegetarianismo, ma di molta più
compassione.
Dunque, in quali direzioni procederà la scienza? Anche se probabilmente come
filosofia il comportamentismo, l’“antimentalismo”, è defunto, le tecniche
comportamentistiche sono sopravvissute e il rigore del pensiero comportamentista,
per ironia della sorte, sta svelando la vita mentale degli animali come mai prima. Gli
scienziati studiano – o cercano di studiare – gli animali in laboratorio e, in misura
sempre crescente, nel loro ambiente naturale in modo rigoroso e sistematico come se
realizzassero uno studio in doppio cieco. Non è affatto facile. Quando si osserva il
comportamento di un animale complesso come lo scimpanzé, poniamo, nel corso di
lunghi periodi, probabilmente anche per il ricercatore più diligente è una richiesta
eccessiva evitare di trarre qualunque tipo di deduzione sulle emozioni dei suoi
soggetti di studio.
La dura verità è che gli animali molto intelligenti spesso sono estremamente
affettuosi e formano legami emotivi stretti con i loro osservatori. Ma ciò non significa
che una straordinaria ricerca sul campo quale quella condotta da Jane Goodall con i
“suoi” scimpanzé non abbia accresciuto enormemente la nostra conoscenza di questi
animali eccezionali. Gli etologi sono sempre più interessati a studiare le capacità
cognitive delle scimmie antropomorfe e dei cetacei, animali che fino a poco tempo fa
erano troppo grandi, impegnativi e costosi da osservare singolarmente o in gruppo.
Va citato anche il controverso tentativo di alcuni scienziati di spingere al limite le
capacità cognitive animali – tentando di insegnare agli scimpanzé il linguaggio dei
segni, ad esempio.
Per svelare la mente degli animali si sono usate tecniche nuove e ingegnose. il test
dello specchio di Gallup, seppur imperfetto e probabilmente non definitivo, sta
fornendo nuove e sorprendenti intuizioni circa la coscienza animale. Oggi si ritiene
che quella che forse è una caratteristica determinante della vera sensibilità – una
teoria della mente, ossia “sapere che cosa sta pensando l’altro individuo” – è
posseduta quanto meno da alcuni primati. Infine, è cresciuta la consapevolezza
culturale di un fatto che la scienza conosce dall’Ottocento, ovvero che gli esseri
umani sono animali. Le relazioni biochimiche, neurologiche ed evolutive che hanno
portato alla nostra mente e a quella di altre specie oggi vengono studiate e messe in
relazione le une con le altre. Quasi nulla oggi viene considerato definitivamente,
assolutamente, “esclusivo” degli esseri umani. L’intelligenza, la paura, la gelosia e la
rabbia, l’uso di strumenti e il linguaggio sono stati osservati in molte altre specie.
Osservando gli scimpanzé, li si è visti impegnati in comportamenti che è difficile
non interpretare come estremamente violenti, vendicativi e persino sadici. Anche
l’umile ratto si è rivelato preoccupantemente “simile all’uomo” in molte sue
caratteristiche, manifestando segni di affetto, di malvagità e persino di dipendenza da
vari narcotici (è piuttosto facile far sì che molti animali diventino alcolisti, tabagisti e
anche incalliti ed entusiasti consumatori di cocaina). Molti animali sono in grado di
rispecchiare i “nostri” tratti cognitivi più raffinati, ma non sono affatto immuni da
quelli più bassi. La vecchia storia per cui è ingiusto confrontare i criminali con gli
animali perché “gli animali non scendono mai così in basso” non è corretta. In
sostanza, lo studio del cervello degli animali si è avvicinato di più allo studio del
cervello umano e viceversa.
Questo settore continua a essere molto controverso. Il pensiero comportamentista
sopravvive e agisce da utile antidoto contro chi vede prove di qualcosa di profondo
ogni volta che un cane abbaia o una balena agita la coda. I tentativi di insegnare agli
animali a “parlare”, quanto meno a gesti, sembrano molto più convincenti, dicono gli
scettici, nei documentari televisivi che sotto la fredda luce delle lampade di
laboratorio. Forse, inevitabilmente, è un settore che attrae i ragionamenti bizzarri
come una candela attira le falene – per alcuni, tra i pappagalli parlanti e i pappagalli
telepatici c’è solo un picco passo.
Forse non saremo più soli e questo, inevitabilmente, influenzerà il modo in cui
trattiamo le altre coscienze. Far male a uno zombie va bene, perché allo zombie non
può importare. Ma come fanno oggi molti scienziati a credere che i loro ratti siano
zombie? Per il momento, l’establishment scientifico dominante ritiene che sia (quasi)
giusto in circostanze estreme condurre esperimenti su uno scimpanzé. Sarebbe dello
stesso parere se gli scimpanzé ci chiedessero di fermarci?
Capitolo 2
Perché il tempo è così misterioso?
Il tempo crea la nostra vita. È la chiave del nostro modo di percepire qualsiasi cosa,
dal funzionamento della nostra mente agli eventi che segnano il nostro passaggio
dalla nascita alla morte. Forse possiamo immaginare un universo senza colori, senza
calore o senza luce, ma non riusciamo a immaginare un universo senza tempo.
Eppure, stando all’interpretazione che sembra darne la fisica, forse saremo costretti a
farlo.
Quando si supponeva che fosse possibile trasformare in oro i vili metalli, era
naturale supporre che dovesse esistere una sostanza in grado di produrre la
trasformazione. Oggi, come si faceva un tempo con la pietra filosofale, supponiamo
che esista una “quantità” che segna il passaggio degli eventi. Così come lo spazio
impedisce che tutto accada nello stesso luogo, il tempo impedisce che tutto accada
nello stesso momento. Tuttavia, mentre sappiamo che lo spazio esiste – ecco, posso
agitare le mani nello spazio – il tempo è qualitativamente diverso. Nel tempo, dopo
tutto, non possiamo agitare le mani.
La vera natura del tempo continua a sfuggirci. I fisici hanno fatto passi da gigante
negli ultimi cent’anni riguardo al modo di considerare il tempo, ma in merito a che
cosa sia esattamente in realtà ne sappiamo quanto gli antichi greci. Platone, dopo
tutto, pensava che fosse un’illusione e a quanto pare la sua concezione sta tornando di
moda. Come ha detto il fisico matematico Paul Davies, «nella fisica conosciuta non
c’è nulla che corrisponda al passaggio del tempo […] com’è possibile che qualcosa di
così fondamentale nella nostra esperienza del mondo fisico si riveli una specie di
scambio di persona, un errore di identificazione?».
Si parla dello “scorrere” del tempo, ma dentro a che cosa scorrerebbe? A quale
velocità scorre e perché? E che cos’è la “sostanza” che scorre? Un’astronave si
muove nello spazio e il suo movimento può essere descritto in relazione ad altri
oggetti. Ma il passaggio del tempo non può essere descritto in funzione di qualcosa di
diverso dal tempo stesso.
Possiamo pensare al tempo in termini matematici e fisici e lo possiamo considerare
anche in termini di percezione. Il nostro modo di considerare il tempo sembra essere
collegato in maniera piuttosto strana al nostro modo di pensare. In realtà non
“vediamo” il passaggio del tempo, dopo tutto. Abbiamo semplicemente una serie di
esperienze soggettive che sono diverse da quelle dei nostri ricordi ed è questa
differenza che il nostro cervello cosciente percepisce come tempo.
Il tempo produce paradossi di ogni sorta. Tanto per cominciare, si può usare
l’esistenza del tempo per dimostrare che nulla è reale. Il passato è morto esattamente
come chi ha smesso di vivere, non è più reale dei sogni, giusto? E il futuro non è
ancora accaduto. Quindi, di nuovo, tutto ciò che deve ancora arrivare è soltanto
immaginazione. A essere reale, pertanto, è solo quell’infinitesimale frammento di
tempo tra il passato e il futuro, che naturalmente equivale a zero – infatti, poiché il
tempo non si ferma mai, quel frammento ha uno spessore nullo. Il tempo è reale,
quindi, ma nient’altro lo è.
Dopo Einstein, molti fisici hanno tentato di allontanarsi dalla tradizionale
concezione di buon senso, il presentismo, vale a dire l’idea che esiste solo il presente,
il mondo in questo preciso momento.
Nuove idee sul tempo rimodellano questa grandezza sfuggente e cercano di
eliminare dall’equazione la percezione soggettiva del tempo da parte del cervello
umano, poiché la concezione presentista del tempo è sempre più in disaccordo con la
visione del mondo sostenuta dai fisici.
Nei confronti del tempo, la scienza si è sempre mostrata paga di ignorare gli orrori
filosofici che produce e continuare semplicemente a misurarlo, assegnandogli un
simbolo – rappresentato da una graziosa letterina, la t – e inserendolo nelle equazioni,
perché faccia il suo lavoro e oli il meccanismo delle sfere. Il tempo è una grandezza
fondamentale: non può essere definito in funzione di altre grandezze. Possiamo solo
misurarlo e usarlo per derivare grandezze meno fondamentali. Un cambiamento di
velocità in rapporto al tempo dà l’accelerazione. Se lasciamo cadere una pietra in un
pozzo, possiamo calcolarne la profondità in metri semplicemente moltiplicando per
cinque il quadrato dell’intervallo di tempo, in secondi, tra l’inizio della caduta e il
tonfo (se il nostro scenario è la Terra).
Einstein ha mostrato che la tirata della gravità e lo strattone dell’accelerazione
sono equivalenti (la forza che sentiamo in un razzo in accelerazione è identica alla
forza che percepiamo quando il nostro peso è spinto verso la Terra). In verità,
Einstein dimostrò anche che lo “spazio” e il “tempo” in realtà sono facce diverse
della stessa medaglia. Prima di Einstein, si riteneva che lo spazio fosse pieno di un
mezzo invisibile chiamato etere, le cui onde trasmettevano la luce e altre radiazioni
elettromagnetiche, così come l’aria trasmette i suoni. Sarebbe stato sufficiente
calcolare le proprietà dell’etere, in particolare come si deforma e reagisce
all’immissione di energia, e la fisica sarebbe stata risolta.
Ma l’idea dell’etere dovette essere abbandonata quando si scoprì (nel 1887, grazie
ad Albert Michelson ed Edward Morley) che la velocità della luce, misurata da un
osservatore, è sempre identica indipendentemente dalla velocità dell’osservatore
rispetto alla fonte del fascio di luce. Successivamente, il fisico irlandese George
FitzGerald e il fisico olandese Hendrik Lorentz suggerirono la possibilità di spiegarlo
supponendo che il tempo in realtà scorra più lentamente negli oggetti in movimento,
e quindi che a tutti la luce sembri viaggiare alla stessa velocità. Comunque,
presumevano che questo movimento fosse relativo a un etere.
Ma nella relatività di Einstein il vecchio etere fu abolito e sostituito dallo
spaziotempo, una sorta di superetere concettuale, nel quale si possono tracciare i
grafici del movimento e dell’attrazione di gravità. Essendo impossibile misurare la
propria velocità rispetto all’etere (il vecchio etere), tutta l’idea risultava sbagliata.
D’altro canto, tutti abbiamo il nostro tempo personale (in realtà ogni punto che si
muove indipendentemente nello spaziotempo ha il proprio tempo personale; quello
del mio piede sinistro è leggermente diverso da quello della mia testa). Se si portano
le idee di Einstein alla loro logica conclusione (come fece lui), occorre buttar via tutte
le idee sullo “scorrere” del tempo, e pure sul passato, sul presente e sul futuro.
Platone avrebbe approvato.
É possibile tracciare il grafico dei movimenti di un oggetto nello spaziotempo
proprio come si può fare nelle tre dimensioni spaziali. Ad esempio, si può
rappresentare l’orbita della Luna intorno alla Terra come un’ellisse, con l’asse
verticale costituito dal tempo. La fisica considera il tempo un po’ come
un’“etichetta”, un modo di pensare agli eventi, specie la relazione con gli eventi che
può essere descritta matematicamente. Un punto, ad esempio, esiste nello spazio e nel
tempo. Se si prendono due punti, P1 e P2, tra i due può esistere tutta una serie di
relazioni, spaziali e temporali. Ma la loro relazione spaziale è molto diversa
qualitativamente dalla loro relazione temporale. Se P1 esiste prima di P2, ad esempio,
P1 può influenzare P2. Ma P2 non ha la stessa relazione con P1 . In altre parole, si
può parlare del “futuro causale” di P1, ma non del “passato causale” di P2 –
semplicemente perché (nel nostro universo) gli eventi non hanno un “passato
causale”. Lo spaziotempo einsteiniano di fatto delinea la geometria sia dello spazio
sia dell’ordine degli eventi. Gli effetti di ogni singolo evento nel tempo successivo
formano un “cono”, che si estende nella quarta dimensione, quella del tempo.
All’interno del cono, tutto è causale e logico. All’esterno, la causalità va persa e a
regnare è la follia. Questo ordine, l’idea che il tempo sia un modo per dire che una
certa cosa ne segue un’altra come sua conseguenza, sembra essere la chiave della
vera natura del tempo.
Einstein ci ha fatto buttar via ogni idea di simultaneità assoluta. Due eventi che in
un certo sistema di riferimento avvengono nello “stesso momento”, in un altro
possono avvenire in momenti diversi. La domanda “che cosa sta accadendo sulla
Luna adesso?” in realtà non ha una risposta sensata. Una persona sulla Terra è sempre
a un secondo e mezzo dalla possibilità di sapere qualsiasi cosa su ciò che sta
accadendo sulla Luna, poiché nessuna informazione può viaggiare più veloce della
luce. Non esistendo un “adesso” privilegiato, assoluto, è meglio pensare invece a un
“panorama temporale” in cui il tempo si dispiega nella sua totalità.
Il tempo sembra funzionare al contrario di quasi ogni altra cosa nella fisica. Gli
impulsi, ad esempio, possono essere invertiti: gli oggetti rallentano e accelerano. Per
quasi ogni cosa, non esiste una freccia, una strada a senso unico. I processi sono
simmetrici. Ma i processi che dipendono dal tempo sono diversi. Se un bicchiere cade
a terra e si rompe, i pezzi non si rimettono insieme – e non lo faranno mai – formando
un nuovo bicchiere. L’entropia, ovvero il grado di disordine in un sistema, tende ad
aumentare nel corso del tempo (seconda legge della termodinamica). Il “senso unico”
del tempo si sta dimostrano un vero rompicapo per i fisici. Molto probabilmente, sarà
necessario approfondire molto la comprensione del tempo prima di riuscire a
conciliare la fisica quantistica e la relatività in una teoria del tutto.
A differenza degli effetti quantistici, il tempo è qualcosa che percepiamo
direttamente. Abbiamo ricordi del passato, ma non del futuro. Né il futuro né il
passato sono “reali” nel senso di essere accessibili e misurabili, ma uno dei due
sembra avere una posizione privilegiata rispetto all’altro: il fatto che il passato sia
“accaduto” gli conferisce una realtà che al futuro è negata. Il Big Bang sembra aver
imposto una freccia cosmologica del tempo. Le galassie (o, meglio, i superammassi
di galassie) si stanno allontanando da 13,7 miliardi di anni e non abbiamo ragioni per
supporre che questa situazione si ribalterà mai.
Forse l’estremo opposto rispetto all’idea che il tempo non esista consiste nel
trattarlo come un componente fondamentale – forse il componente fondamentale –
dell’universo. La cosiddetta teoria della gravità quantistica a loop, uno dei tentativi di
risolvere le differenze tra la teoria quantistica e la relatività, ipotizza che le particelle
fondamentali siano composte da minuscole trecce arrotolate di spaziotempo. È un
concetto affascinante – tutto è solo spazio e tempo, non esiste nessuna “materia”. Per
citare lo scrittore di scienza David Castelvecchi, «se gli elettroni e i quark – e quindi
gli atomi e le persone – sono la conseguenza del modo in cui lo spaziotempo si
avviluppa su se stesso, potremmo non essere altro che un fagotto di dreadlock ribelli
nello spazio».
Il problema è che questa idea, per quanto attraente, proprio come la teoria delle
stringhe è molto difficile da verificare sperimentalmente. Per scoprire le stringhe,
dovremmo costruire acceleratori di particelle grandi come un continente per generare
le energie necessarie.
Per indagare la struttura interna delle stringhe, probabilmente dovremmo iniziare a
costruire nello spazio acceleratori grandi come un pianeta. Essendo ragionevole
prevedere che il budget della NASA e del CERN non consentirà di realizzare un tale
progetto in tempi brevi, dobbiamo fare affidamento sul fatto che la teoria mantenga le
promesse. Oppure forse – solo forse – avremo un colpo di fortuna e scopriremo quelli
che secondo alcuni fisici sono i resti delle colossali energie del Big Bang: le
superstringhe cosmiche, gigantesche particelle subatomiche lunghe miliardi di
chilometri e fatte di “materia” così densa che un metro di superstringa peserebbe
migliaia di miliardi di tonnellate.
Come grandezza fondamentale il tempo sembra intrinsecamente collegato alla
nostra percezione cosciente del mondo. Il filosofo Derek Parfit, in Reasons and
Persons, un importante saggio sull’identità personale pubblicato nel 1986, parlò
dell’«oggettività del divenire temporale». Il tempo, secondo Parfit, è collegato in
modo profondo ed estremamente strano al nostro concetto di identità personale
continua, qualcosa su cui la maggior parte delle persone riflette poco, anche se forse è
l’aspetto fondamentale della nostra esistenza.
L’idea che il tempo sia solo la quarta dimensione dello spazio, con cui abbiamo
una interazione speciale grazie alla nostra mente cosciente, è un’idea affascinante. E
chiaramente contiene un elemento di verità. É impossibile, come dice il viaggiatore
nel tempo di Herbert George Wells, avere un «cubo istantaneo». Non si può esistere
per una quantità di tempo infinitesimale.
La natura del tempo sembra essere davvero collegata al modo in cui lo percepiamo.
L’universo che percepiamo è, in modo quanto mai fondamentale, la creazione del
nostro apparato sensoriale. Quanto tocco con le dita il piano di un tavolo di legno, in
realtà “sento” le minuscole forze repulsive di trilioni e trilioni di elettroni; non sto
effettivamente “toccando” alcunché. Quando “vedo” un oggetto, sto semplicemente
decifrando fotoni riflessi ed emessi, che il mio cervello, grazie a un’evoluzione –
probabilmente avvenuta in modo arbitrario e contingente -, interpreta come luce e
oscurità, colori e così via.
É così anche nel caso del tempo. La natura bizzarra ed elastica del tempo percepito
è stata ben illustrata da Albert Einstein: «Quando un uomo siede un’ora in compagnia
di una bella ragazza, gli sembra che sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una
stufa rovente e un minuto gli sembrerà più lungo di un’ora. Questa è la relatività».
Questa citazione proviene dal riassunto di un articolo che Einstein scrisse per il
“Journal ofExothermic Science and Technology” nel 1938 (in cui racconta nei
dettagli le difficoltà di procurarsi una stufa rovente e una bella ragazza – Vivo nel New
Jersey). Molti hanno fatto notare che a volte può sembrare che il tempo passi a
velocità clamorosamente diverse da quella “normale”. Ad esempio, si sente spesso
raccontare che il tempo “rallenta” in maniera spettacolare appena prima di un disastro
incombente, come un incidente stradale o una caduta da cavallo.
Il professor David Eagleman, un neurobiologo della University of Texas Medical
School, dedica le sue ricerche alla percezione del tempo. Eagleman illustra una
anomalia fondamentale con l’esempio del lampo e dello sparo. Alle gare di sprint si
dà inizio con uno sparo, e non con un lampo di luce, perché il nostro cervello (o
quanto meno le regioni cerebrali inconsce di risposta motoria da cui dipendono i
velocisti per uscire dai blocchi) reagiscono più velocemente al suono che alla luce
(anche se il suono arriva nelle nostre orecchie soltanto a un milionesimo della
velocità delle onde luminose).
Nella percezione, le parti coscienti del nostro cervello realizzano un trucco di
montaggio parecchio astuto per convincerci che il suono e la luce viaggiano alla
medesima velocità. Se faccio schioccare le dita davanti agli occhi, percepisco tre cose
come contemporanee: il rumore dello schiocco, la visione delle dita che schioccano e
anche, cosa quanto mai bizzarra, la decisione di farle schioccare in quel preciso
momento. In realtà, i tre eventi avvengono in momenti diversi.
Ho “deciso” di far schioccare le dita diverse decine di millisecondi prima che gli
impulsi nervosi venissero trasmessi al braccio per consentire l’azione ai muscoli. Il
suono dello schiocco è arrivato nel mio cervello un istante dopo la luce. Sono
quantità di tempo minuscole, ma il nostro cervello è capace, quando vogliamo che lo
faccia, di percepire intervalli di tempo estremamente piccoli, dell’ordine dì centesimi
e anche di millesimi di secondo.
È stata dimostrata la possibilità di indurre con l’inganno le procedure di montaggio
temporale del cervello a mescolare i tempi. Nel 2006, il professor Eagleman ha
pubblicato un articolo in cui descrive un esperimento realizzato insieme alla sua
équipe
4
. Ai soggetti, tutti volontari, veniva domandato di premere un pulsante.
Quando premevano il pulsante, quasi istantaneamente si accendeva la luce. In certi
casi, al soggetto veniva domandato di premere il pulsante dopo che la luce si era
accesa. In tutti i casi, i soggetti erano perfettamente in grado di distinguere l’ordine
degli eventi.
4
C.Stetson, X. Cui, P.R. Montagne e D.M. Eagleman, Motor-Sensory Recalibration leads to an illusory Reversal of
Action and Sensation, in “Neuron”, LI (5), pp. 651 -659.
A un certo punto, l’esperimento cambiava. Veniva introdotto un ritardo di 100
millisecondi (un intervallo di tempo che si percepisce facilmente) tra l’atto di premere
il pulsante e l’accensione della luce. Ma dopo aver premuto il pulsante qualche decina
di volte, il cervello dei volontari ricalibrava il ritardo temporale riportandolo quasi a
zero. A questo punto arriva la parte interessante. D’un tratto, il ritardo temporale
veniva cambiato da 100 millisecondi a 50 millisecondi. Le conseguenze non erano
state previste. In alcuni casi, i soggetti percepivano l’accensione della luce come
precedente al momento in cui premevano il bottone. In altre parole, il loro cervello
era stato indotto con l’inganno a percepire in modo sbagliato non solo l’ordine degli
eventi, ma anche il rapporto di causa ed effetto.
Uno dei risultati sperimentali più sconcertanti della storia della scienza è stato
prodotto dalle ricerche del neuroscienziato Benjamin Libet. Il suo studio del cervello
e degli impulsi nervosi ha mostrato che il movimento dei muscoli sotto il presunto
controllo cosciente – un colpetto dato col dito, ad esempio – è governato da impulsi
nervosi che vengono trasmessi dal cervello e dal midollo spinale prima che noi
diventiamo consapevoli di volerci muovere. É un risultato inquietante, poiché sembra
proprio implicare che la nostra sensazione di avere il controllo cosciente delle nostre
azioni sia un’illusione.
Per la verità, la nostra percezione del tempo ci mostra qualcosa di molto
interessante riguardo alla coscienza e al libero arbitrio. Non è vero né che prima
decidiamo di agire e poi agiamo né che prima prevediamo di decidere di agire e poi
agiamo; al contrario, elaboriamo il concetto post hoc fittizio che “noi”, nel senso
della nostra mente cosciente, abbiamo preso una decisione.
E la percezione del tempo è una parte fondamentale di tutto ciò. «Se riuscissimo a
capire che cosa accade davvero nella realtà, e se fossimo capaci di tirar fuori il tempo
dall’equazione – quella piccola t che compare in tante equazioni della fisica», si
domanda Eagleman, «tutto ciò avrebbe un effetto emotivo?».
Gran parte della nostra vita emotiva è legata a una percezione del tempo molto
singolare. Il dolore, la perdita, l’apprensione e le aspettative sono tutte collegate a un
modello interno del tempo e della causalità. Einstein scrisse alla sorella di Michel
Besso, un suo amico appena defunto: «Il fatto che Michel mi abbia preceduto
abbandonando questo strano mondo non è importante. Per noi fisici la distinzione tra
passato, presente e futuro è un’illusione».
Quando una persona muore la pensiamo come irrimediabilmente persa, eppure ha
vissuto abbastanza da creare un’impressione nella nostra coscienza – abbastanza da
farci sentire la sua mancanza. Non ci si addolora per un bambino prima che nasca,
eppure l’universo una settimana prima della nascita di un bambino è privo di quella
persona esattamente come lo è una settimana dopo la sua morte, ottant’anni dopo. Il
tempo è legato così strettamente all’esperienza che noi ne facciamo che forse è
proprio questo ciò che lo contraddistingue da tutte le altre grandezze fisiche.
In realtà, è facile immaginare una forma di vita che percepisca il tempo in un modo
molto diverso da noi umani. Noi non siamo capaci di scrutare nel futuro – sembra che
sia vietato – ma sappiamo certamente scrutare nel passato. Viviamo nel presente – è
così che ci siamo evoluti ed è chiaramente il meglio per noi. Ma immaginate di essere
una creatura per cui il passato è altrettanto “reale” di ciò che accade nel presente. Gli
eventi accaduti un giorno, un mese o dieci anni fa sarebbero altrettanto reali degli
eventi che stanno avendo luogo ora. Naturalmente, un po’ funzioniamo così –
viviamo costantemente non nel vero “ora”, ma nell’ora” di qualche secondo o
millisecondo fa. Ma per noi il passato è morto.
Se non lo fosse, avremmo una visione molto differente dell’universo. La morte, ad
esempio, perderebbe un poco il suo impatto. Se la vita delle persone che abbiamo
perso fosse reale quanto la vita di chi è ancora con noi, piangeremmo i morti come
facciamo ora?
Derek Parfit ha scritto che forse per noi sarebbe più conveniente se fossimo “senza
tempo” e dessimo lo stesso peso al passato e al futuro. É vero che non ci sentiremmo
sollevati quando finisce qualcosa di brutto, ma non saremmo neanche tristi quando
termina qualcosa di piacevole. In un senso molto reale, inganneremmo il tempo. Per
una persona senza tempo, dieci ore di agonia ieri o domani sarebbero equivalenti.
Anche la morte, tuttavia, non la spaventerebbe più della nascita.
Curiosamente, abbiamo più facilità a considerare senza tempo la vita degli altri.
Supponiamo di venire a sapere che un caro amico che vive all’estero è molto malato e
sta per morire; i medici, dopo una serie di analisi, hanno previsto che ha davanti a sé
tre mesi di sofferenze prima di morire. In seguito scopriamo che la situazione è in
realtà un po’ diversa: l’amico era effettivamente malato, ma qualche tempo fa. È stato
tre mesi in agonia, ma ora è morto. Ci sentiamo meglio? No – il che forse è strano,
poiché se ci dicessero che le nostre sofferenze sono finite, invece di essere ancora di
là da venire, in teoria dovremmo sentirci meglio. Poiché è un nostro amico, ci rattrista
l’idea delle sue difficoltà, indipendentemente dal momento in cui si realizzano.
Riusciamo a essere molto più obiettivi quando consideriamo il passato, il presente e il
futuro di un nostro amico che non quando si tratta della nostra vita.
«Nella nostra esperienza quotidiana», ha scritto Piet Hut, un fisico dell’Institute for
Advanced Study di Princeton, «il tempo scorre, e anche noi scorriamo insieme al
tempo. Nella fisica classica, il tempo è congelato e fa parte di uno scenario
spaziotemporale congelato.
Tuttavia non abbiamo ancora raggiunto un accordo sull’interpretazione del tempo
nella meccanica quantistica. Che cosa succederebbe se in futuro un’interpretazione
scientifica del tempo facesse vedere che tutti gli scenari precedenti sono sbagliati e
dimostrasse che il passato, il futuro e persino il presente non esistono?»
5
.
La causalità, la chiave per comprendere il tempo, sembra essere cablata nel nostro
cervello. Per citare Toby Wiseman, un fisico dell’Imperial College London, «forse
abbiamo questo concetto di causa ed effetto nei recessi del nostro cervello, forse
nessun fisico potrebbe ideare una teoria in cui la causalità funziona in un altro
modo».
L’idea che il tempo sia un unico blocco, un panorama temporale einsteiniano o
platonico in cui il passato, il presente e il futuro sono tutti altrettanto reali, è popolare
tra i fisici poiché mette da parte l’apparente soggettività del passaggio del tempo. Ciò
nonostante, l’idea che il futuro, in un certo senso, sia già accaduto e che non
5
P.Hut, A Radical Re-Evolution of the Character of Time, in J.Brockman (a cura di), What is Your Dangerous Idea?,
Simon & Schuster, New York 2006.
dovremmo temere la nostra morte più della nostra nascita è così contraria al senso
comune che probabilmente non entrerà mai a far parte della scienza popolare. È
affascinante pensare che se riuscissimo ad abbandonare la nostra visione presentista,
forse saremmo molto più felici. Non avremmo più paure e rimpianti. Perderemmo
anche la capacità di anticipare gli eventi. Quindi ci sarebbe un prezzo da pagare per
essere senza tempo.
Un universo in cui il tempo funzioni in modo radicalmente diverso da quello che ci
è familiare è senz’altro molto difficile da immaginare. I fisici hanno ipotizzato
universi alternativi di ogni sorta – universi in cui la costante gravitazionale è diversa,
o in cui l’interazione nucleare debole e l’interazione nucleare forte hanno valori
diversi rispetto a quelli del nostro universo. Per la maggior parte questi universi
sarebbero molto diversi dal nostro, e sarebbero molto impegnativi per la vita. A
quanto pare, modificando i parametri fisici anche di poco si finisce per ottenere un
universo che è un enorme buco nero, oppure un monotono mare di particelle
elementari.
Per lo meno, questi universi alternativi, seppur scialbi e poco appassionanti, sono
entità rispettabili e dal comportamento regolare. C’è però una costante che non si può
modificare: la causalità. Se si manomette l’ordine degli eventi, si finisce per ottenere
un universo che ha davvero un comportamento imprevedibile. Lo spazio, la massa, le
forze e tutto il serraglio delle particelle sono parti essenziali della ricetta dell’essere.
Ma il tempo, a quanto pare, anche se non siamo davvero certi di che cosa sia, è
realmente fondamentale.
Capitolo 3
Per piacere, posso vivere in eterno?
Invecchiare è inevitabile come il sorgere del sole e le tasse, giusto? Be’, sì, se sei
così sfortunato da nascere sotto forma di essere umano. Veniamo concepiti, viviamo
la nostra vita, ci logoriamo e poi esaliamo l’ultimo respiro. È triste e deprimente e
abbiamo poche possibilità di modificare la situazione, quindi tanto vale farci
l’abitudine. «Non voglio raggiungere l’immortalità con le mie opere», ha detto
Woody Allen, «voglio raggiungerla evitando di morire».
Sulla medesima falsariga si sono sviluppate le riflessioni del professor Roy
Walford, un biologo dell’Università della California di Los Angeles, ora scomparso.
Walford era convinto di aver scoperto il segreto, se non dell’immortalità vera e
propria, quanto meno dell’allungamento della vita. Secondo Walford, la chiave per
prolungare la vita consisteva nel mangiare di meno. In realtà, nel non mangiare quasi
nulla.
Una volta, nel 1999, andai a trovarlo nella sua casa di Venice Beach. All’epoca
aveva poco più di settant’anni e in generale aveva un atteggiamento più da anziano
Hell’s angel che da rispettabile accademico: barba e baffi molto ricercati, testa pelata,
camicia di jeans e un medaglione (credo), per non parlare dell’ingiustificata presenza
di un paio di belle ragazze che sgambettavano per casa. Ci sedemmo e mi spiegò la
sua filosofia.
«Penso di potermela cavare con meno di mille calorie al giorno», mi disse.
Walford era uno dei massimi sostenitori mondiali della restrizione calorica come
strumento per allungare la vita. Aveva scritto alcuni libri di grande successo (The 120
Years Diet, Beyond the 120 Years Diet: How to Double Your Vital Years) e aveva
creato un sito web, da cui era nata una sorta di gruppo on-line, una comunità
dell’ipocalorismo che seguiva le sue raccomandazioni dietetiche. «Mi scusi se
mangio», mi disse quando gli portarono la “cena”, una ciotola di riso e un po’
d’acqua. «Non perde la voglia di vivere, mangiando così?», gli domandai. «No. Più
mangio in questo modo e più vivrò, e questo è tutto», rispose. Appena conclusa
l’intervista, lo salutai e andai subito a cercare una pizzeria.
Qualche giorno dopo mi imbattei in Greg Stock, un biologo dell’UCLA collega di
Walford, un altro scienziato convinto che forse è possibile fare qualcosa contro
l’invecchiamento. Mentre prendevamo il tè e i pasticcini seduti alla mensa
dell’UCLA (Stock non è un fautore della restrizione calorica), mi raccontò del suo
progetto di organizzare un grosso premio in denaro da assegnare a chiunque fosse
riuscito a escogitare un modo concreto per estendere la durata della vita umana. Il
premio non è ancora stato conferito. Poco prima che ci separassimo, mi chiese che
impressione mi avesse fatto Walford. «É un uomo incredibile», esclamò con
sarcasmo, «deve avere 72, 73 anni… e al massimo gliene daresti 80!».Walrord è
morto nel 2006. Woody Allen è sempre molto presente, ma purtroppo non abbiamo
ragione di credere che il suo desiderio verrà esaudito più di quanto sia accaduto a
Walford.
L’invecchiamento è un tema molto strano. Come la natura del tempo, è qualcosa
che non abbiamo ancora compreso bene. Come la natura, e la dibattuta esistenza,
della sensibilità animale, è una questione politica e altamente controversa. La natura
del processo di invecchiamento è un argomento molto studiato, ma la possibilità di
contrastarlo lo è assai di meno. Combattere l’invecchiamento è un settore
caratterizzato da un gigantesco abisso tra la percezione e il desiderio del pubblico e
quel che gli scienziati stanno effettivamente facendo e sono disposti a prendere in
considerazione. Chiunque suggerisca di aver trovato un modo per estendere la durata
della vita umana di solito è immediatamente tacciato di follia e respinto. Non
stupisce, perché finora questo settore è stato affollato da eccentrici e da folli. Forse
più sorprendente è il disprezzo di cui viene fatto oggetto chiunque soltanto desideri
che sia possibile far vivere più a lungo gli esseri umani. Esistono alcuni scienziati
dell’invecchiamento – i biogerontologi – che considerano l’invecchiamento come una
“malattia” e quindi, quanto meno in linea di principio, curabile. Ma non sono
personaggi popolari nella comunità scientifica. Siamo di fronte a un paradosso. La
morte non è popolare e tuttavia non sembra che vi sia una gran volontà di
contrastarla, neanche nella comunità scientifica, che forse potrebbe farlo. È strano.
La probabile durata della vita varia enormemente tra specie e specie. Forse sarebbe
stato meglio per Walford e Alien nascere, ad esempio, tartarughe (è assodato che
arrivano quasi a 200 anni) o, meglio ancora, balene. Le balene sono più intelligenti
delle tartarughe – anche se non sappiamo se siano dotate di senso dell’umorismo. I
marinai hanno sempre raccontato storie inverosimili di grandi cetacei
straordinariamente vecchi (di 150, 200 anni e passa). Fino a poco tempo fa, queste
storie venivano giudicate assolutamente incredibili. Ma di recente si sono osservate
alcune balene della Groenlandia con antichi arpioni conficcati nel cranio – armi che
risalgono alla fine del Settecento. Quindi è possibile che esistano grandi animali
senzienti che sono più vecchi delle balene americane della Georgia: straordinario! Si
sono scoperti pesci che vivono nelle profondità dell’oceano che forse possono vivere
più di cent’anni. L’Orange Roughy, il pesce specchio atlantico (una specie di cui oggi
si fa un gran consumo – dopo che è stato opportunamente ribattezzato: un tempo era
noto con il nome meno appetitoso di “testa viscida”), non matura fino a circa 35 anni
ed è possibile quindi che l’esemplare che ci ritroviamo nel piatto nuotasse nel
Pacifico quando alla Casa Bianca c’era Lincoln.
Alcuni dati sembrano indicare che certi dinosauri di grandi dimensioni potrebbero
essere stati, se non immortali, quanto meno veri e propri matusalemme, anche in
confronto ai più longevi animali presenti oggi sulla Terra – balene, tartarughe e pesci.
I grandi sauropodi, che potevano raggiungere una lunghezza di 65 metri, una volta
arrivati all’età adulta probabilmente non avevano predatori e forse le malattie
infettive e i tumori progredivano molto lentamente. Non è del tutto impossibile che
alcuni di questi grandi animali vivessero per mille anni e passa. Certi anemoni di
mare e molluschi sembrano davvero immortali, nel senso che non si indeboliscono e
non soccombono alle malattie dell’invecchiamento, ma quanto possa vivere un
singolo individuo allo stato naturale è un punto controverso. Per prestazioni migliori
è necessario uscire dal regno animale.
La specie Pinus longaeva è una delle attrazioni che compare regolarmente nel
Guinness dei primati. Un esemplare californiano, vivo e abbastanza vegeto, ha 4844
anni (determinati contando gli anelli del tronco). Molti alberi possono raggiungere
un’età di un migliaio di anni e anche più e tra questi sono famose le sequoie giganti.
Anche se si tratta di cifre imponenti, il vero detentore del primato le supera di diversi
ordini di grandezza. Nel 1999, alcune spore batteriche sono state riportate in vita in
laboratorio. Questi frammenti di vita sono stati trovati all’interno di cristalli di sale in
una grotta a Carlsbad, nel New Mexico. Nulla di strano – tranne il fatto che in base
alle stime le spore risalgono a 250 milioni di anni fa. Ciò significa che oggi esistono
batteri più antichi dei dinosauri.
All’estremo opposto della scala, la vita può essere davvero breve. Lo stadio adulto
di alcuni insetti (le efemere sono l’esempio più famoso) non dura che un giorno o due
(anche se il loro ciclo di vita complessivo è assai più lungo). I mammiferi di piccole
dimensioni – i topi, i toporagni e così via – se hanno fortuna arrivano a due anni. Gli
uccelli tendono a vivere molto più a lungo e così anche i pipistrelli. Gli esseri umani
si piazzano all’inizio della classifica, con la persona che in base a documenti
attendibili è stata la più longeva mai vissuta, la magnifica Jeanne Calment, che ha
raggiunto la poco credibile età di 122 anni e 164 giorni. La signora Calment era
francese e si curava poco dello “stile di vita sano”. Per la verità, mangiava e beveva
più o meno tutto ciò che desiderava e fumò fino a novant’anni suonati. È possibile
che alcuni – pochi, però – siano vissuti più a lungo. I racconti di abitanti di remote
regioni montuose vissuti fino a età inverosimili sono soltanto leggende – l’unica cosa
che hanno in comune tutti questi luoghi è il fatto che l’ufficiale di stato civile che
registra le nascite, i matrimoni e i decessi vi capita raramente.Quali conclusioni possiamo trarne? L’invecchiamento e la morte arrivano per tutti?
Le balene e le tartarughe alla fine muoiono, certo, ma che cosa si può dire di quei
batteri? Per un oggetto complesso come una cellula vivente (completa di materiale
genetico), 250 milioni di anni è una durata di conservazione straordinaria (non è
chiaro se i batteri riportati in vita fossero ancora capaci di respirare e dividersi).
L’esistenza di questi oggetti mostra che la vera immortalità probabilmente è
irraggiungibile.
La durata della vita presenta una variabilità enorme e non sempre si riesce a
individuare chiaramente una tendenza. In generale, ciò che è grosso tende a vivere
più a lungo di ciò che è piccolo – e questo vale per gli animali e anche per le piante. I
topi e altri animali simili vivono un paio d’anni; gli insetti molto meno; cani, conigli
e gatti molto di più. I pesci, forse inaspettatamente, vivono molto a lungo. Anche il
pesciolino rosso che si vince al luna park può vivere quasi cinquant’anni. I rettili e i
mammiferi di grandi dimensioni hanno una vita abbastanza lunga – gli elefanti vivono
una settantina d’anni e gli esseri umani, come abbiamo visto, possono essere più che
centenari, anche se le scimmie antropomorfe nostre parenti raramente raggiungono il
traguardo dei cent’anni. Nonostante le rispettive dimensioni, i cavalli e i bovini non
vivono a lungo, mentre i pipistrelli e gli uccelli sono decisamente longevi.
Un’altra regola generale è che gli animali lenti tendono a vivere più a lungo di
quelli veloci. Quei pesci longevi che vivono in acque profonde sono molto lenti,
quasi catatonici, in confronto ai loro cugini che saltellano sul pelo dell’acqua. Se si
tiene in mano un toporagno, il suo cuore batte così velocemente da farlo quasi
tremare. Gli animali grandi, come gli elefanti e le balene, hanno un metabolismo
molto più lento. C’è qualcosa di vero nella vecchia idea che, sebbene la durata della
vita di specie diverse sia notevolmente variabile, il numero di battiti del cuore nella
vita di un animale tende a essere all’incirca costante.
L’invecchiamento degli esseri umani presenta molte regolarità. In generale, con il
passare del tempo siamo vissuti sempre più a lungo, ma non è chiaro se la tendenza
sia sempre stata questa. Va detto, a proposito, che si è ingenerato uno strano equivoco
riguardo all’espressione “aspettativa media di vita” e al suo vero significato.
Nell’antica Roma, ad esempio, la vita media di un cittadino durava meno di 25 anni.
Molti ne deducono che all’epoca le persone di 20-30 anni fossero “anziane”. In
diverse trasmissioni televisive, ho sentito affermare che oggi nei paesi africani, dove
l’aspettativa di vita può essere di 40 anni e anche meno, i trentenni sono “vecchi”.
Ovviamente gli antichi romani non si consideravano “vecchi” a vent’anni, non più
dei trentacinquenni africani oggi. A quell’epoca, proprio come oggi, un vecchio era
qualcuno con barba e capelli bianchi e almeno cinquant’anni alle spalle. Quelle
aspettative di vita spaventosamente basse avevano poco a che fare con
l’invecchiamento, essendo invece collegate al terribile livello di mortalità infantile
della maggioranza delle società premoderne. Se ogni cinque bambini tre muoiono
prima di aver compiuto un anno, se anche i sopravvissuti arrivassero tutti a 100 anni
l’aspettativa media di vita sarebbe comunque solo di 40 anni. Se si elimina la
mortalità infantile dall’equazione (calcolando l’aspettativa di vita di chi ha cinque
anni, ad esempio), i bambini dell’epoca classica probabilmente potevano prevedere di
vivere fino a 50-60 anni e molti di loro fino a 80 anni e più.
Il miglioramento dell’aspettativa di vita che si è verificato nei secoli recenti è
dovuto per lo più alla riduzione dei tassi di mortalità infantile. Negli ultimi 150 anni
all’incirca, l’acqua potabile, la conoscenza dell’igiene e dei principi
dell’alimentazione e in particolare le vaccinazioni hanno raddoppiato la durata della
vita prevista per un essere umano sano del Primo Mondo. Qualche decennio fa si
presumeva che l’aspettativa di vita nei paesi sviluppati si sarebbe grossomodo
stabilizzata all’incirca in questi anni, ma è andata diversamente. Di fatto, l’aspettativa
media di vita nelle nazioni più ricche del mondo continua ad aumentare di circa due
anni ogni decennio – il che significa che nei paesi più ricchi ogni singolo giorno fa
crescere l’aspettativa di vita di cinque ore.
Molto meno noto è il fatto che, prima dell’avvento di tutte queste nuove tecnologie
meravigliose, probabilmente nell’ultimo migliaio di anni l’aspettativa di vita umana
era costantemente diminuita nonostante – o piuttosto per – gli enormi progressi della
tecnologia, e in particolare dell’agricoltura, realizzati da Homo sapiens a partire
dall’ultima glaciazione. Oggi si ritiene che i nostri antenati dell’età della pietra
vivessero un po’ più a lungo, anche tenendo conto della mortalità infantile, degli
europei medievali, ad esempio (che erano anche un poco più alti).
Alcuni dati indicano che oggi nei paesi più poveri le persone che mantengono uno
stile di vita tradizionale da cacciatore-raccoglitore se la passano meglio di chi sta al
fondo della catena agricola e abbiamo validi motivi per supporre che con l’avvento
dell’agricoltura e la specializzazione dell’industria lo stato di salute generale della
popolazione sia diminuito – e questo è il prezzo che abbiamo pagato per l’aumento
del numero di persone che un dato appezzamento di terreno è in grado di sostenere.
La nostra alimentazione è diventata più insipida e meno nutriente, abbiamo
introdotto cibi raffinati (cereali macinati) e, in particolare, vivendo in comunità più
grandi e stabili, siamo diventati molto più soggetti a epidemie e malattie infettive. É
stato solo con i progressi dell’igiene pubblica e con la comprensione dei meccanismi
di diffusione delle malattie che il “benessere” consentito dal “grande balzo in avanti”
costituito dalla nascita dell’agricoltura, circa 10.000 anni fa, ha procurato il vantaggio
di una popolazione più sana, oltre che più numerosa.
Per altri versi, stiamo ancora procedendo all’indietro. Nell’“età della pietra”,
un’espressione vaga che uso qui per indicare qualsiasi civiltà preagricola, gli esseri
umani forse non erano molto longevi e forse erano costantemente sul punto di morire
di fame, però avevano una forma fisica superba. Oggi la maggior parte dei cacciatoriraccoglitori
rimasti è perfettamente in grado di fare 30-50 chilometri al giorno,
camminando o correndo. La caccia, e anche la raccolta di molluschi e bacche, era ed
è un’attività fisica intensa. Probabilmente l’europeo del paleolitico o il neandertaliano
avevano in media un consumo giornaliero di calorie doppio rispetto a quello del
cittadino romano medio, a sua volta tre o quattro volte superiore al nostro. É
interessante considerare come sarebbero la nostra vita, la nostra salute e la nostra
aspettativa di vita se potessimo combinare uno stile di vita da cacciatore-raccoglitore
del paleolitico con tutti i progressi della medicina e della sanità moderne. Si può
sospettare che si vedrebbe un balzo in avanti sostanziale dell’aspettativa di vita.
Non è difficile immaginare come potremmo aumentare l’aspettativa di vita, ma
non è affatto facile capire come potremmo allungare la durata massima della vita.
Sembra che sia fissata intorno ai 120 anni. Anche le popolazioni più sane, al riparo da
epidemie e violenze, composte di persone dotate delle risorse necessarie per nutrirsi
bene e trarre profitto dall’assistenza medica, sembrano capaci di produrre solo pochi
“supercentenari”, ovvero persone che vivono no anni o più. Finora gli esempi
documentati sono circa 800.
Questa cifra va confrontata con il milione o quasi dei semplici centenari comparsi
nei libri dei primati. Mentre sta diventando senz’altro molto più facile vivere fino a
100 anni (negli anni Sessanta del secolo scorso, in Gran Bretagna vivevano in media
circa 300 centenari; 40 anni più tardi sono intorno ai 6.000 e per la fine degli anni
Trenta si prevede che ve ne saranno 10 volte tanto – in una popolazione relativamente
stabile), arrivare a 112 anni non sembra affatto più facile. Nel 1857, in tutto il mondo
c’era soltanto una persona di 112 anni, un olandese di nome Thomas Peters, che morì
quell’anno. Oggi le persone che hanno 112 o più anni sono una decina, ma tra gli
anni Cinquanta dell’Ottocento e oggi in qualche momento questo gruppo è stato più
numeroso. Dalla morte di Jeanne Calment, avvenuta nel 1997, nessuno ha superato il
limite di 120 anni. A meno che non sopraggiunga qualche progresso abbastanza
deciso della medicina, è possibile, anzi probabile, che io non viva abbastanza per
veder battere il suo primato.
Perché? Che cosa stabilisce questo limite superiore e che funzione ha per una
specie il fatto di avere una vita con un massimo prestabilito? Per capirlo sembra che
sia necessario comprendere che cos’è e come avviene l’invecchiamento.
L’invecchiamento è un processo che spesso viene frainteso. Molti sembrano
pensare semplicemente che le persone si logorano, proprio come le macchine. Quanto
al perché, al motivo profondo per cui accade, di solito si dice che è “per il bene della
specie” e “per lasciare spazio ai giovani”.
La tentazione di considerare il corpo umano o animale in questo modo è forte, ma
sarebbe sbagliato. É vero, alcune parti del nostro corpo si deteriorano quando
diventiamo vecchi, proprio come accade in una macchina, ma i modi in cui il passare
del tempo influenza un organismo o una macchina presentano differenze
fondamentali. Per quanto riguarda i primissimi anni della nostra vita, non è chiaro se
vi sia un reale “invecchiamento”. A causa delle grandi dimensioni del nostro cervello,
i bambini in effetti devono nascere prematuramente, altrimenti le madri non
potrebbero proprio partorirli. In confronto ai piccoli di quasi ogni altra specie di
mammiferi, i bambini sono straordinariamente vulnerabili e dipendenti. Nei primi
anni di vita, il tempo tempra, non distrugge, il nostro corpo. Le ossa diventano più
dense e più forti, come anche i muscoli, i tendini e le cartilagini. Il cervello diventa
più acuto, scopriamo le gioie della locomozione, del cibo solido e del linguaggio e
sviluppiamo un sistema immunitario finemente regolato. All’inarca per i primi
vent’anni in realtà “ringiovaniamo” – in termini reali, dalla prima infanzia alla fine
dell’adolescenza in effetti diventiamo più giovani – i muscoli diventano più forti, lo
scheletro si rafforza, il sistema immunitario diventa più potente, diventiamo
sessualmente maturi, la pelle si distende e i capelli diventano più spessi e lucidi.
In un qualche momento a cavallo tra il secondo e il terzo decennio di vita inizia il
declino. L’invecchiamento, o senescenza, si definisce vagamente come la
diminuzione della capacità di affrontare lo stress. I meccanismi di riparazione del
corpo, compresa la resistenza alle malattie infettive, diventano meno efficienti.
Considerando quel che accade all’inizio della vita, il “deterioramento” non è
l’inevitabile conseguenza del passare del tempo per un organismo vivente, quindi
deve esistere qualche altra ragione per il fatto che il nostro corpo rinuncia a
mantenerci giovani.
Una delle possibilità per arrivare a una “spiegazione” dell’invecchiamento, o
quanto meno a una spiegazione del motivo per cui specie diverse invecchiano a
velocità diverse, consiste nel considerare tale processo in un contesto evolutivo. Si
invecchia a una velocità determinata da quanto ci si potrebbe aspettare di
sopravvivere allo stato naturale. Gli animali grossi tendono a invecchiare più
lentamente di quelli piccoli semplicemente perché, essendo grossi, hanno minori
probabilità di essere divorati, di morire per cause accidentali, di fame o di freddo.
Non c’era ragione di sviluppare un meccanismo efficiente per affrontare i tumori a 90
anni, poiché molto probabilmente i nostri antenati venivano divorati da una tigre dai
denti a sciabola prima di raggiungere quell’età.
Un elefante vive all’incirca 20 volte più di un topo. A loro volta, i topi vivono ben
più a lungo delle formiche. La regola che lega l’invecchiamento alle dimensioni vale
in tutti i phyla e in tutti gli ordini.
I rettili grossi vivono più a lungo dei rettili piccoli e così anche i pesci e gli anfibi.
Le interessanti eccezioni di questa correlazione fra l’aspettativa di vita e le
dimensioni confermano la regola. I topi hanno una vita breve, ma i pipistrelli
(anch’essi mammiferi di piccole dimensioni) vivono relativamente a lungo. La
maggior parte degli uccelli ha una vita più lunga di quanto farebbero prevedere il
peso e le dimensioni. Le tartarughe (anche quelle piccole) hanno una vita lunga e le
grandi tartarughe potrebbero essere tra gli animali più longevi. La spiegazione è
semplice. Le creature che volano, o che hanno una corazza, hanno una probabilità
molto più bassa di essere vittime di predatori rispetto a quelle che non sanno volare.
Ed essere divorati da un predatore è una causa di morte importante – spesso la più
importante – per gli animali di piccole dimensioni.
Non è molto sensato che un topo sia dotato di meccanismi di riparazione (che
possono essere dispendiosi) per il corpo e per il DNA che contiene, dato che molto
probabilmente nell’arco di un paio d’anni diventerà cibo per gufi. É meglio che tutto
sia diretto a far sì che il topo cresca più alla svelta possibile e si riproduca nel modo
più rapido ed efficace possibile nel breve tempo che sarà inevitabilmente disponibile.
Per gli elefanti è molto meno probabile soccombere ai predatori, quindi è sensato che
il corpo conceda loro il lusso di un’età avanzata in cui possono allevare diverse
generazioni di giovani. Vivono lentamente e muoiono vecchi. Come noi.
La teoria evoluzionistica dell’invecchiamento conduce a un grazioso aforisma: “La
morte è il prezzo che paghiamo in cambio del sesso”. Investendo tutte le risorse nella
riproduzione per avere la possibilità di trasmettere i suoi geni, il corpo paga il prezzo
più tardi, sotto forma di tumori e altre malattie della vecchiaia. L’idea è che gli stessi
ormoni sessuali che conferiscono l’immortalità ai nostri geni accelerino l’estinzione
dell’arca temporanea in cui vengono trasmessi da una generazione alla successiva.
Forse la teoria evoluzionistica della senescenza spiega parzialmente il motivo per
cui invecchiamo, ma non il modo in cui avviene – né che cosa sia realmente. Gli
evoluzionisti suppongono che gli orsi polari siano bianchi poiché nelle regioni artiche
si può arrivare di soppiatto alle spalle di una preda soltanto essendo bianchi. Ma
questo non spiega che cosa sia a rendere bianco un orso polare – per rispondere a
questa domanda più essenziale (e in questo caso più semplice), occorre catturare un
orso bianco e studiarne la pelliccia, il modo in cui sono costruiti i follicoli, come
rifrangono e riflettono la luce e così via. Ma parlando con i gerontologi si ha la
sensazione che non vi sia proprio nulla di semplice nel processo di invecchiamento,
anzi che vi sia una lacuna fondamentale nella nostra comprensione
dell’invecchiamento – che cos’è a rendere bianca la pelliccia, non perché è bianca
(anche se di solito i gerontologi esprimono la questione in altri termini e in realtà, di
solito, negano l’esistenza di una lacuna). L’invecchiamento è un processo, un
meccanismo profondo e fondamentale, un “orologio” a base genetica che inizia a
funzionare il giorno che nasciamo? Questa è la teoria dell’orologio biologico”.
Oppure l’invecchiamento è semplicemente il nome che diamo al graduale accumulo
di danni alle cellule e al DNA, dovuti per lo più all’ambiente e alla presenza di
ossigeno nel corpo, che portano a una cascata di malattie? Questa, a grandi linee, è la
teoria “stocastica”.
L’ossigeno ha un ruolo da protagonista nella storia della senescenza. Se la morte è
il prezzo che paghiamo per il sesso, potrebbe anche essere il prezzo che paghiamo per
non essere un lievito. All’incirca 3.000 milioni di anni fa, la vita inventò la
fotosintesi. In meno di un paio di centinaia di milioni di anni, l’aria iniziò a riempirsi
di un terribile veleno. La gradevole coltre di azoto, vapore acqueo e anidride
carbonica venne improvvisamente contaminata da un gas nocivo con la spaventosa
capacità di fare a pezzi le molecole organiche complesse e di distruggere il codice
genetico.
Oggi tendiamo a considerare questo gas, l’ossigeno, come un elemento piuttosto
buono. Possiamo fare a meno del cibo per sei settimane e dell’acqua per sei giorni,
ma non duriamo più di sei minuti senza una nuova provvista di questa molecola
reattiva. Ma l’ossigeno è ancora un veleno, anche se molti non se ne rendono conto.
Se respirassimo O 2 puro per un qualsiasi intervallo di tempo, la gola si scorticherebbe
e le vie aeree si infiammerebbero per l’equivalente gassoso di un picco glicemico.
Adattandosi all’ossigeno e, alla fine, cooptandolo abilmente nei cicli respiratori, la
vita si trascinò fuori dal suo torpore anaerobico e iniziò a turbinare e a dimenarsi con
impetuoso vigore. L’ossigeno è un elemento potente, che consente il rilascio rapido
ed efficiente di grandi quantità di energia quando le molecole vengono scomposte.
Ma l’ossigeno è una lama a doppio taglio. La sua stessa reattività danneggia le
cellule, specie il loro materiale nucleare, che consente al nostro corpo di funzionare in
modo così rapido. Come i motori diesel tendono a durare più a lungo dei motori dalla
messa a punto perfetta delle macchine da corsa, così il nostro metabolismo,
sovraccarico e ossigenato, contiene la ricetta per la sua stessa fine. Iniziamo ad
arrugginire, dall’interno.
Ma l’ossigeno non esaurisce la questione: un altro elemento sospetto è il telomero.
I telomeri sono segmenti di DNA posti alle estremità dei cromosomi e hanno un ruolo
fondamentale nel mantenimento dell’integrità genetica durante la divisione delle
cellule. Ogni volta che una cellula si divide, alcuni dei suoi telomeri vanno perduti.
Secondo una delle teorie che sono state formulate, l’orologio dell’invecchiamento è
costituito proprio dall’inevitabile accorciamento dei telomeri. Quando i telomeri
diventano troppo corti, la cellula perde la sua integrità. Nel 1965, il biologo Leonard
Hayflick scoprì che le cellule differenziate che si dividono in coltura si possono
dividere solo 50 volte all’incirca prima di morire. Si pensa che questo valore
massimo, noto come limite di Hayflick, sia dovuto all’accorciamento dei telomeri. Si
ritiene inoltre che, se si scoprisse un modo per impedire l’accorciamento dei telomeri,
si potrebbe aggirare questo limite; oggi molte ricerche si dedicano a questo
argomento, considerato assai promettente.
Ma i telomeri potrebbero essere una falsa pista. Sembra proprio che il superamento
del limite di Hayflick potrebbe non essere un vantaggio. I due tipi di cellule che si
possono replicare indefinitamente sono le cellule staminali e le cellule tumorali.
Interferendo con il processo di accorciamento dei telomeri, potremmo semplicemente
finire per scatenare la crescita di tumori incontrollabili. E non è chiaro neppure se sia
l’accorciamento dei telomeri a causare l’invecchiamento, o se invece il collegamento
sia nel senso opposto. In alcune specie di uccelli marini, i telomeri in realtà si
allungano con l’età. È estremamente difficile per la scienza separare le cause e gli
effetti dell’invecchiamento.
Il professor Steven Austad dell’Università del Texas è uno dei massimi gerontologi
mondiali e anche una delle persone più capaci di spiegare in termini semplici che
cosa accade quando invecchiamo. La teoria evoluzionistica spiega perché
invecchiamo; come ciò avvenga si riduce sostanzialmente al fatto che ci deterioriamo
e ci trasformiamo. Le nostre cellule, o i loro organelli e processi metabolici, vengono
distrutti dall’ossigeno quando bruciamo combustibile. Ad Austad l’analogia
dell’orologio piace, ma «quel che non capiamo è che cosa determina la velocità
dell’orologio. Il danno avviene per una ragione e avviene più velocemente in un topo
che in un cane e più velocemente in un cane che in un essere umano. La domanda
fondamentale è: qual è il responsabile di queste differenze?».
«L’invecchiamento è un processo che ci rende sempre più vulnerabili da diverse
malattie. Tuttavia è senz’altro qualcosa di diverso dalla semplice somma delle nostre
malattie. Anche il cinquantenne più sano non può correre come faceva a vent’anni.
Questo è l’invecchiamento nella sua forma più pura». Invecchiando, diminuisce la
capacità del nostro corpo di affrontare vari generi di danni. In maniera specifica, in
questo processo appaiono fondamentali le devastazioni causate dall’ossigeno reattivo
e dai danni incessanti al DNA. Ma chiarire la natura della causa e dell’effetto si sta
dimostrando difficile. Se osserviamo qualche cambiamento nelle cellule durante
l’invecchiamento, si tratta delle cause della degenerazione, oppure degli effetti di
qualche meccanismo fondamentale più profondo?
Una delle conseguenze interessanti dell’idea dell’invecchiamento come processo,
fa notare Austad, è il fatto che in tarda età siamo molto più differenziati. I ventenni
sono molto più simili tra loro di quanto non siano gli ottantenni, per dirla brutalmente
(per usare termini ancora più brutali, quasi tutti i ventenni sono vivi, mentre i
potenziali ottantenni in percentuale notevole non lo sono). Ed è proprio vero. Tutti
conosciamo persone di più di 80 anni, e anche di più di 90, capaci di condurre lo
stesso tipo di vita attiva che alla maggioranza è consentito fino alla mezza età, o
anche solo in gioventù. Conosco una persona che a 70 anni suonati continua a fare
escursioni sulle Alpi, mentre molti cinquantenni, e quarantenni, di mia conoscenza
non sono in grado di fare un chilometro di corsa. In gran parte, tutto si riduce allo
stile di vita, a fattori quali il fumo, l’esercizio fisico e l’abitudine a un’alimentazione
sana e così via, ma per un’altra buona parte, come conviene anche il più severo
esperto di salute, si tratta di fortuna.
Per quanto fortunati e virtuosi siate, invecchierete e morirete comunque. La
domanda è: si può fare qualcosa? In un certo senso, stupisce che non siano più
numerosi i biologi che studiano questo problema: dopo tutto, ne va della loro vita.
I gerontologi, gli studiosi della biologia dell’invecchiamento, sono in disaccordo
l’uno con l’altro, come tutti gli scienziati. Ma su un punto tendono a concordare: il
fatto che l’invecchiamento non è qualcosa che dovremmo cercare di fermare. Leonard
Hayflick ha condannato severamente quelli che chiama “estorsori della vita”, ovvero
coloro che vogliono usare la scienza per allungare la durata della vita umana. È raro
incontrare un gerontologo convinto che si dovrebbe cercare di ottenere questo
risultato, anche se fosse possibile. Qualunque biologo del settore si dichiarerà di
questo stesso parere. «Non capiamo tutto dell’invecchiamento. Ma quel che capiamo
indica che rallentare il processo sarebbe enormemente difficile e costoso». Questa è
la parte fondamentale: anche se potessimo, non dovremmo.
Perché no? Qui la scienza scivola nella moralità. Pensare che modificare la durata
della vita umana sia in qualche modo sbagliato sembra essere diventata una
concezione liberale dominante. Uno degli argomenti è che facendo vivere le persone
più a lungo la scienza contribuirà al problema della sovrappopolazione. Un altro è che
la ricerca nel settore delle terapie anti-invecchiamento, appena mostrerà il minimo
segno di successo, dirotterà inevitabilmente quasi ogni dollaro ed euro disponibili per
la ricerca, a detrimento del resto della medicina. Infine, è probabile che qualsiasi
“cura” per la vecchiaia dovrà essere razionata a causa dei costi. Si creerà un’ennesima
linea di demarcazione tra i ricchi e i poveri del mondo.
Questi sono argomenti razionali, ma credo che tanti scienziati si oppongano a
questo tipo di ricerche anche per un motivo non dichiarato. Si tratta di qualcosa di
simile a un puritanesimo scientifico, la sensazione che, quali che siano le obiezioni
logiche e le giustificazioni, agire in questo modo non sia corretto. È strano, poiché
non sono mai state mosse grandi obiezioni ai progressi realizzati negli ultimi 200 anni
per quanto riguarda l’aspettativa di vita. Nessuno ha avuto da obiettare contro le
vaccinazioni o gli antibiotici tirando in ballo la sovrappopolazione e, anche se esiste
una questione politica assai dibattuta in merito ai costi dei farmaci antiretrovirali e
alla loro conseguente disponibilità per i poveri, nessuno suggerisce che le ricerche di
una cura per l’AlDS andrebbero interrotte. Questo atteggiamento puritano è meno
forte di un tempo, ma è ancora diffuso.
Per il momento, naturalmente, è un argomento puramente accademico: nonostante
il denaro speso, le ricerche intraprese, le promesse e le campagne di marketing,
rimane il fatto che non una singola pozione, pillola o cura è riuscita a estendere la
durata della vita umana di un solo giorno. Ciò non significa che nessuno si stia
dedicando al problema. Si è avviata qualche strategia che un giorno potrebbe fornire
risultati tangibili. Può darsi che l’era degli esseri umani che vivono mille anni sia
lontanissima, ma forse non è lontana l’era dei centocinquantenni.
Forse il modo più semplice per estendere la durata della vita umana potrebbe
essere rendere illegale avere figli prima di aver compiuto quarant’anni. Michael Rose,
che insegna biologia evoluzionistica all’Università della California, è uno dei pochi
biologi con cui ho parlato che sia entusiasta dell’ipotesi di allungare la vita umana.
Com’è noto, ha allevato moscerini della frutta longevi come Matusalemme – che
vivevano all’incirca il 10 per cento in più della media – usando una forma di semplice
selezione artificiale, ovvero consentendo solo agli animali più vecchi di procreare.
«Oh sì, un dittatore potrebbe far aumentare in maniera spettacolare la durata della vita
umana semplicemente dichiarando illegale avere figli prima dei 40-45 anni», mi ha
detto Rose. Funzionerebbe per un motivo molto semplice: in quel modo si elimina dal
pool genetico chiunque non abbia una costituzione abbastanza forte da arrivare alla
mezz’età ancora fertile e in buona salute.
Funzionerebbe, ma non si realizzerà. Quel che invece potrebbe accadere è una
qualche sorta di manipolazione genetica. In organismi come il moscerino della frutta
(Drosophila melanogaster) e il verme nematode Caenorhabditis elegans è stato
identificato un certo numero di “geni dell’invecchiamento” e si è appurato che le
copie supplementari di un gene chiamato Sir2 estendono la durata della vita di
entrambi gli organismi. Una delle scoperte più interessanti degli ultimi anni è il gran
numero di geni fondamentali comuni a una vasta gamma di specie, dal lievito agli
esseri umani. Un certo gene, chiamato RAS1, è collegato alla durata della vita del
lievito. Noi abbiamo una versione di questo gene, anche se ancora non si sa se
manipolare la nostra versione del gene possa produrre lo stesso effetto.
Una strategia che sembra molto promettente deriva da una delle scoperte più
deprimenti dell’intero canone della scienza medica, vale a dire il fatto che una forte
limitazione delle calorie sembra prolungare la durata della vita. Una gran quantità di
risultati, provenienti soprattutto da esperimenti sui topi, indica che mantenere gli
animali in uno stato prossimo all’inedia (però con una dieta bilanciata ricca di
vitamine e minerali e così via) ha senza dubbio un effetto benefico sulla durata della
vita.
Alcuni studi risalenti a più di settant’anni fa, che descrivono i risultati di diete
spartane sui roditori, hanno dimostrato che tale strategia li fa vivere fino al 50 per
cento in più – nel caso degli esseri umani, equivarrebbe grossomodo a una vita di 150
anni. A quanto pare, l’effetto della restrizione calorica non si cura né della specie né
del phylum: si è dimostrato che ne beneficiano anche i vermi, i ragni e gli insetti. Il
primo esperimento vero e proprio sull’effetto della restrizione calorica sugli esseri
umani è stato condotto nel deserto dell’Arizona nel 1991, quando otto scienziati si
sono rinchiusi in una serie di cupole geodetiche collegate tra loro. Il progetto,
chiamato “Biosfera 2”, era un tentativo di creare un habitat autosufficiente, sigillato
in modo ermetico dal resto del mondo, “Biosfera 1”. Uno di questi scienziati era il
nostro Roy Walford, che aveva elaborato una dieta draconiana di un migliaio di
calorie al giorno, contenente tutte le sostanze nutrienti essenziali.
Quando gli scienziati sono riemersi dalle loro cupole dopo un paio di anni, l’unico
che non era in forma era Walford, che si era fatto male alla schiena cadendo da una
trave. Negli anni seguenti, Walford promosse le sue teorie sull’estensione della vita
mediante diete ipocaloriche. Il problema è che gli esseri umani vivono molto a lungo
e ottenere dati sperimentali sull’estensione della durata della vita umana è
estremamente difficile (con i moscerini della frutta e i topi è ben più facile). L’idea
che per garantirci una vecchiaia sana dobbiamo passare la vita in uno stato simile
all’inedia è una delle più deprimenti di tutta la storia della medicina. È possibile che
esistano altri modi?
Al momento attuale non è chiaro come e perché la restrizione calorica “funzioni”.
Secondo un’interpretazione popolare, con meno cibo si ha una minore attività
metabolica e quindi meno radicali liberi rilasciati nel flusso sanguigno dai mitocondri
delle cellule, che sono obbligate a lavorare con la massima efficienza. Si ritiene che i
radicali liberi e altre sostanze chimiche ossidanti abbiano un ruolo fondamentale nel
processo di invecchiamento. Questi effetti collaterali della nostra fame di ossigeno
fanno letteralmente arrugginire il nostro corpo dall’interno. Una teoria rivale,
l’“ipotesi dell’ormesi” (etimologicamente: stimolazione), afferma che una condizione
vicina all’inedia induce stress e il corpo genera una reazione non dissimile dalla
reazione immunitaria provocata da un’infezione. Questo “tempra” l’organismo,
facendolo funzionare in una modalità di difesa e rendendolo complessivamente più
capace di combattere le malattie dell’invecchiamento. Un punto interessante è che lo
stesso gene Sir2 collegato alla velocità di invecchiamento nei moscerini della frutta e
nei vermi sembra anche essere influenzato dalla restrizione calorica. Quindi è
concepibile che usando terapie farmacologiche o genetiche sia possibile riprodurre
l’effetto di una dieta da fame.
La ricerca sulle possibilità di combattere l’invecchiamento sta lentamente
diventando più rispettabile. La maggioranza degli scienziati sembra ancora contraria,
ma questo atteggiamento si sta modificando, specie in America; in parte, tale
cambiamento è dovuto alla crescita della ricchezza. I paesi come gli USA oggi sono
molto più ricchi, in termini assoluti e relativi, di qualsiasi altra società della storia.
Oggi in America o in Europa una persona povera ha accesso a ricchezze al di là delle
aspettative degli imperatori romani. Oggi i ricchi, che sono molto numerosi, possono
comprare quasi tutto ciò che vogliono: aeroplani, macchine, terreni sconfinati. Per
ora, tuttavia, non possono comprarsi una vita più lunga.
Alcuni scienziati, tra cui Greg Stock, ritengono che per superare la magica barriera
dei 125 anni sarà necessario cambiare la nostra linea germinale, modificare il nostro
DNA. Forse si potrà usare una combinazione di terapie genetiche e farmaci per
riprodurre gli effetti della restrizione calorica senza essere sempre affamati e stanchi.
Aubrey de Grey, uno scienziato dell’Università di Cambridge con una barba lunga
mezzo metro, è quasi universalmente deriso dalla “comunità dell’invecchiamento”
per la sua tesi che una “soluzione” alla vecchiaia è appena dietro l’angolo, con tutta
probabilità consistente in un cocktail di farmaci e terapie genetiche che contrasterà gli
effetti dei radicali liberi e di altri processi metabolici dannosi che indeboliscono le
ossa, rendono fragile la pelle e fanno sì che gli organi smettano lentamente di
funzionare. Gli attacchi a de Grey sono motivati da uno scetticismo razionale, ma
anche, credo, da quella morale puritana che considera l’estensione della vita come un
settore di cui la scienza non deve occuparsi.
È molto probabile che tutti i grandi progressi nell’estensione della durata della vita
umana si siano già realizzati. Anche eliminando la mortalità infantile dall’equazione,
siamo molto più in forma dei nostri bisnonni. Oggi un sessantenne in buone
condizioni fisiche può aspettarsi di vivere per altri 25-30 anni e questo non era mai
accaduto in tutta la storia dell’umanità. L’aspettativa di vita è in continua crescita in
quasi tutte le società, anche se resta da capire se nei prossimi anni l’attuale epidemia
di obesità, diffusa in tanti paesi occidentali dalla fine degli anni Settanta del
Novecento, influenzerà questa tendenza (al momento, stranamente, sembra che non
abbia alcuna influenza). L’immortalità è molto, molto lontana.
Possiamo far vivere più a lungo i topi tenendoli a stecchetto, i vermi ritoccando i
loro geni e i moscerini della frutta semplicemente impedendo loro di riprodursi prima
di una certa età. Ma gli esseri umani non sono topi, moscerini o vermi. Chi risolverà
il problema dell’invecchiamento diventerà una delle persone più famose della storia.
Non sono disposto a scommettere che non accadrà mai. Purtroppo, però, quasi
certamente non sarò ancora vivo quando accadrà.

 Continuo…

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