Richard Dawkins: Perché esiste la mente (2) – in che senso i geni controllano le nostre decisioni

Questo episodio è uno dei più importanti e sorprendenti dell’intero libro. Da non perdere.
Questo è il decimo post di una serie dedicata alla teoria dell’evoluzione per selezione naturale e al libro di Richard Dawkins “Il Gene Egoista”, del 1976.

Il concetto centrale dell’episodio è questo: i geni non possono controllare direttamente il nostro comportamento, perché nella vita è spesso necessario prendere decisioni molto rapide per poter sopravvivere, e i geni sono troppo lenti per far ciò; quindi, i geni hanno ideato uno stratagemma: costruiscono dei computer capaci di prendere decisioni rapide al posto loro. Questi computer sono i nostri cervelli. Dawkins fornisce una formidabile analogia per farci comprendere la situazione: un gene che costruisce il nostro cervello è come un programmatore che scrive un programma di scacchi: proprio come il programma di scacchi, una volta programmato ed attivato, gioca interamente da solo, così il nostro cervello, dopo essere stato programmato dai geni, prende autonomamente le sue decisioni nella vita. Così come il programmatore non ha idea di che scelte prenderà il suo programma di scacchi una volta attivato, così i geni non hanno idea delle decisioni che il cervello sta prendendo. Dawkins fornisce anche una seconda analogia, che coinvolge gli alieni , e che non voglio anticiparvi.

La parola a Dawkins.

Perché esiste la mente (2)

È un fraintendimento comune pensare che, poiché una macchina come un missile teleguidato è stata originariamente progettata e costruita consapevolmente da un uomo, allora deve essere anche sotto il controllo diretto di un uomo. Un’altra variante di questa fallacia è “i computer non giocano davvero a scacchi, perché si limitano a fare ciò che è stato detto loro da un operatore umano”. È importante capire perché questa è una fallacia, altrimenti non riusciremo a comprendere in che senso i geni possano ‘controllare’ il nostro comportamento. Gli scacchi computerizzati sono un ottimo esempio per illustrare la situazione, quindi li discuterò brevemente.

I computer non giocano ancora bene a scacchi come i campioni umani, ma hanno raggiunto lo standard di un bravo dilettante. [Qualche anno fa, Kasparov è stato sconfitto dal programma di scacchi Deep Blue, NdM.] . Per essere più precisi bisognerebbe dire che i programmi hanno raggiunto lo standard di un bravo dilettante, perché un programma non è legato a un computer specifico, ma può funzionare su molti computer diversi. Ora, qual è il ruolo del programmatore umano? Per prima cosa, mettiamo in chiaro che egli non manipola il computer di tanto in tanto, come un burattinaio che tira i fili. Questo significherebbe barare. Invece lui scrive il programma, lo inserisce nel computer, e da quel momento in poi il computer viene lasciato a se stesso: non c’è più alcun intervento umano, tranne quando l’avversario digita le sue mosse. Forse che il programmatore ha previsto tutte le possibili posizioni degli scacchi sulla scacchiera, e ha dato al computer una lunga lista di tutte le mosse buone, una per ogni possibile situazione? Niente di tutto questo, perché il numero di posizioni possibili negli scacchi è così grande che il mondo intero terminerebbe prima che la lista fosse completata. Per la stessa ragione, il computer non si può programmare in modo da valutare “nella sua testa” tutte le possibili mosse, e tutte le possibili contromosse, fino a che non trova una strategia vincente. Infatti il numero di partite di scacchi ipotetiche che dovrebbe valutare in questo modo è maggiore del numero di atomi nella galassia. Quindi non funzionano queste non-soluzioni banali al problema di programmare un computer per giocare a scacchi. In realtà è un problema enormemente difficile, e non sorprende affatto che i migliori programmi non abbiano ancora raggiunto lo status di campione del mondo.

In realtà il ruolo del programmatore è più simile a un padre che insegna a suo figlio a giocare a scacchi. Egli insegna al computer le mosse basilari del gioco, non separatamente per ogni possibile posizione iniziale, ma in termini di regole espresse più economicamente. Non gli dice letteralmente in italiano “gli alfieri si muovono in diagonale”, ma dice qualcosa di matematicamente equivalente, più o meno come “le nuove coordinate di un alfiere si ottengono dalle coordinate precedenti aggiungendo la stessa costante, sebbene non necessariamente con lo stesso segno, alle precedenti coordinate x e alle precedenti coordinate y”. Poi potrebbe inserire nel programma qualche “consiglio”, scritto nello stesso linguaggio matematico-logico, ma che in termini umani si riduce a consigli come “non lasciare il re senza protezione”, o trucchi utili come il “forking” con il cavallo. I dettagli sono interessanti, ma ci porterebbero troppo lontano. Il punto importante è questo. Quando alla fine sta giocando, il computer è solo con se stesso, e non può aspettarsi alcun aiuto dal suo padrone. Tutto ciò che il programmatore può fare è preparare il computer in anticipo nel miglior modo possibile, bilanciando nel modo migliore la quantità di conoscenze specifiche e la quantità di consigli su strategie e tecniche.

Anche i geni controllano il comportamento delle loro macchine di sopravvivenza, non direttamente come fanno i burattinai attraverso i fili, ma indirettamente come un programmatore di computer. Tutto ciò che possono fare è prepararla in anticipo, e poi la macchina di sopravvivenza è lasciata sola, e i geni possono solo starsene passivamente all’interno di essa. Ma perché sono così passivi? Perché non prendono le redini di tanto in tanto e decidono da soli cosa conviene fare? la risposta è che non possono farlo, per problemi di rapidità di risposta. Questo è illustrato bene da un’altra analogia, che prendo dalla fantascienza. “A come Andromeda” di Fred Hoyle e John Elliot è una storia emozionante e, come tutta la buona fantascienza, ha degli interessanti concetti scientifici dietro di essa. Stranamente, nel libro sembra mancare una menzione specifica del punto più importante. Viene lasciato all’immaginazione del lettore. Spero che gli autori non se la prendano se lo esplicito qui.

Nella costellazione di Andromeda c’è una civiltà lontana 200 anni luce. Vogliono diffondere la loro cultura in mondi distanti. Qual è il miglior modo di farlo? Viaggiare direttamente è fuori questione. La velocità della luce impone teoricamente un limite superiore alla velocità con cui ci si può spostare da un posto ad un altro nell’universo, e considerazioni meccaniche impongono in pratica un limite molto più basso. Inoltre, potrebbero non esserci così tanti mondi dove valga la pena di andare: come si fa a sapere in che direzione andare? La radio è un modo migliore di comunicare con il resto dell’universo, poiché, se hai abbastanza energia per diffondere il segnale in tutte le direzioni anziché incanalarlo in una direzione specifica, puoi raggiungere un gran numero di mondi [..]. Le onde radio viaggiano alla velocità della luce, il che significa che il segnale impiega 200 anni per raggiungere la terra da Andromeda. Il problema con distanze così grandi è che non puoi avere una conversazione. Anche ignorando il fatto che ogni messaggio successivo dalla terra sarebbe trasmesso da persone lontane 12 generazioni l’una dall’altra, sarebbe un grande spreco cercare di conversare su distanze così grandi.

Questo problema si presenterà presto anche per noi: occorrono circa 4 minuti alle onde radio per viaggiare tra la terra e Marte. Non c’è dubbio che gli astronauti dovranno abbandonare l’abitudine di conversare in brevi frasi alternate, e dovranno cominciare a parlare in lunghi soliloqui o monologhi, più simili a lettere che a conversazioni. Come altro esempio, Roger Payne ci ha fatto notare che l’acustica del mare possiede alcune proprietà particolari, per cui la lunghissima “canzone” di alcune balene potrebbe teoricamente essere udita in ogni parte del mondo, a patto che le balene nuotino a una certa profondità. Non è noto se le balene comunichino davvero tra loro su così grandi distanze, ma se lo fanno deve essere in modo molto simile ad un astronauta su Marte. La velocità del suono nell’acqua è tale che servirebbero quasi 2 ore perché la canzone attraversi l’oceano Atlantico e la risposta torni indietro. Suggerisco questa come spiegazione per il fatto che alcune balene emettono un soliloquio continuo, senza ripetizioni, per 8 minuti pieni. Poi ricominciano dall’inizio della canzone e la ripetono da capo, molte volte, e ogni ciclo completo dura circa 8 minuti.

Gli andromedani della nostra storia fecero la stessa cosa. Poiché non aveva senso aspettare una risposta, raggrupparono tutto quello che volevano dire in un enorme messaggio ininterrotto, e poi lo trasmisero nello spazio profondo, più e più volte, ripetendolo con un ciclo di qualche mese.

Il loro messaggio, però, era molto diverso da quello delle balene. Consisteva in una serie di istruzioni codificate per costruire e programmare un computer gigantesco. Naturalmente le istruzioni non erano in linguaggio umano, ma un esperto di crittografia è capace di decifrare quasi qualunque codice, specialmente se gli ideatori del codice lo hanno pensato per essere facilmente decifrato. Intercettato dal telescopio radio della Jodrell Bank, il messaggio fu alla fine decifrato, il computer fu costruito, e il programma fu eseguito. Il risultato fu quasi disastroso per l’umanità, poiché le intenzioni degli abitanti di Andromeda non erano universalmente altruistiche, e il computer era molto vicino a diventare padrone del mondo quando l’eroe lo distrusse nel finale (con un’accetta).

Dal nostro punto di vista, la domanda interessante è: in che senso possiamo dire che gli abitanti di Andromeda stessero manipolando gli eventi sulla terra? Essi non avevano alcun controllo diretto su ciò che il computer faceva in ogni singolo momento; anzi non avevano nemmeno modo di sapere che il computer era stato costruito, poiché questa informazione avrebbe impiegato 200 anni per tornare fino a loro. Le decisioni e le azioni del computer erano interamente sue. Non poteva nemmeno chiedere consiglio ai suoi padroni sulle politiche generali da seguire. Tutte le sue istruzioni dovettero essere costruite in anticipo, pre-programmate, a causa dell’inviolabile barriera dei 200 anni. In linea di principio, doveva essere stato programmato in modo molto simile a un programma di scacchi, ma con maggiore flessibilità e capacità di assorbire informazioni dall’ambiente. Questo perché il programma doveva essere progettato per funzionare non soltanto sulla terra, ma in qualunque mondo che possedesse una tecnologia avanzata, mondo le cui condizioni gli Andromedani non avevano modo di conoscere.

Proprio come gli andromedani dovettero far arrivare un computer sulla terra per fargli prendere al posto loro le decisioni di tutti i giorni, i nostri geni hanno dovuto costruire un cervello. Ma i geni non sono solo gli andromedani che hanno mandato le istruzioni codificate; sono anche le istruzioni stesse. La ragione per cui non possono manipolarci direttamente come dei burattinai è la stessa: il lasso di tempo. I geni funzionano controllando la sintesi proteica. Questo è un modo potente di manipolare il mondo, ma è lento. Occorrono mesi di paziente lavoro con le proteine per costruire un embrione. D’altra parte, la caratteristica fondamentale del comportamento è che è veloce. Opera su una scala temporale non di mesi, ma di secondi e frazioni di secondo. Qualcosa accade nel mondo, un gufo appare nel cielo, un fremito nell’erba alta tradisce la preda, e in pochi millisecondi i sistemi nervosi entrano in azione, i muscoli si contraggono, e la vita di qualcuno è salvata — o perduta. I geni non hanno tempi di reazione come questi. Come gli abitanti di Andromeda, i geni possono soltanto far del loro meglio in anticipo costruendo un computer veloce perché prenda decisioni al posto loro, e programmarlo in anticipo con regole e “consigli” per fronteggiare quante più eventualità possono ‘prevedere’. Ma la vita, come il gioco degli scacchi, offre troppe eventualità diverse perché si possano prevedere tutte. Come il programmatore degli scacchi, i geni devono “istruire” le loro macchine di sopravvivenza non nei dettagli, ma dando loro strategie generali e trucchi generici di sopravvivenza.

(continua)

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